C’è stato il 25 aprile e abbiamo immaginato che uno scrittore importante, o un artista, o un filosofo, anche a nome di tanti altri, venisse in tv a dirci che essere antifascisti non vuol dire esserlo “di ieri”, in retrospettiva, ma che dobbiamo esserlo “di oggi”, che la battaglia da combattere è quella di oggi, perché il fascismo è lì, sotto i nostri occhi, pericoloso e odioso come quello di ieri, e non ha il volto della nostra premier, ma quello di chi è al potere in Russia, in Cina, in Iran; che dobbiamo e possiamo sostenere la resistenza di chi in nome della libertà e della difesa del proprio paese aggredito, rischia la vita e muore, oggi esattamente come ieri; che dovremmo chiederci: “Cosa ci direbbero di fare oggi i martiri di ieri? Cosa ci direbbe di fare Matteotti?”. E poi abbiamo immaginato che annunciasse che erano già partite le sottoscrizioni per mettere gli ucraini in grado di difendersi, che avrebbero chiesto ai deputati di rinunciare a un mese del loro stipendio per comprare droni di rilevazione per gli ucraini (solo 400 euro l’uno!) quanto mai preziosi per salvare città e cittadine dalla coventrizzazione; che sarebbero state indette manifestazioni in tutti i paesi europei per indurre i governi ad armare ancor più gli ucraini e ad alzare la voce contro il prepotente, per far capire, a lui e ai suoi sgherri, che comunque “non passeranno”; che, infine, era aperta una strada per chi avesse voluto raggiungere i volontari “stranieri” già impegnati a combattere in Ucraina o gli “umanitari’ che assistono le popolazioni e i profughi delle città e dei villaggi bombardati. Tutto questo non già in nome degli interessi dell’Europa, del resto più che evidenti, ma in nome di un’Europa democratica, patria dei diritti delle genti e dei singoli, forte e, se occorre, disinteressata. E abbiamo immaginato che concludesse dicendo che quell’Europa nasce a Kiev o lì muore. Un sogno, certo, del tutto irrealizzabile, irrealistico, se la maggior parte degli “antifascisti retrò”, in cuor loro o di fatto, parteggia per i fascisti e se nessuno studente di sinistra, a parte sparuti gruppi di giovani liberali, ha deciso di piazzarsi da qualche parte con un cartello con su scritto: “Viva il popolo ucraino”. Comunque sia, nelle pagine centrali l’Iban diretto a una Brigata ucraina, che ha un gran bisogno di droni per ricognizione, c’è. (Quanto può fare anche una sola persona lo racconta in questo numero Anna Husarska).

La copertina è dedicata ai palestinesi di Gaza che vivono all’inferno, per colpa di Hamas e della destra israeliana che con le rispettive “guerre contro i civili” perseguono lo stesso obbiettivo: “Dal fiume al mare”. Forse è anche il caso di fare chiarezza sulle parole: se per colpire due capi di Hamas (un’organizzazione che si fa scudo sistematicamente del suo popolo invece di difenderlo) si getta una bomba in mezzo alle tende di un campo profughi, o se per colpire un tunnel dove stanno acquattati i soldati di Hamas si distrugge l’ospedale sovrastante pieno di feriti, la sproporzione fra l’obiettivo (ammesso che sia sincero) e i danni collaterali è così grave che fa di quell’azione un crimine di guerra; invece se distruggo anche solo i camion di aiuti alimentari per quei profughi, e senza spargimento di sangue, quello è, in germe, un crimine contro l’umanità, cioè più grave; così come lo sono stati, in pieno, il 7 ottobre in Israele, Srebrenica in Bosnia e a suo tempo, Sabra e Chatila in Libano. In ogni caso l’intento è sempre uno solo: la “pulizia etnica”, spingere, cioè, col terrore, un gruppo etnico ad andarsene.
 
Insieme al testo di Stephen Bronner, che condividiamo, pubblichiamo una foto delle proteste di studenti universitari americani. Ora, mentre è comprensibilissima, e condivisa, l’indignazione per quel che succede ai palestinesi di Gaza, un cartello in particolare fa impressione: “From the river to the sea, Palestine will be free”. Vien da chiedersi se la ragazza che lo espone si renda conto di cosa comporti questo per i milioni di ebrei israeliani e per quelli della diaspora. E sa, la ragazza, che quella è la stessa parola d’ordine dei fascisti verdi di Hamas e dell’Iran, gli stessi che prima di portare al patibolo le ragazze restie a indossare il velo, le violentano per evitare, se vergini, di andare in paradiso come pare prescritto dal loro libro?

Ma siccome, comunque, la speranza non muore mai, riprendiamo il finale dell’intervista a Konstanty Gebert che pubblichiamo in questo numero: “Potremmo parlare a lungo di quali sarebbero le possibilità di porre fine alla guerra tra israeliani e palestinesi. Quando in Polonia mi chiedono come vedo una possibile coesistenza tra israeliani e palestinesi rispondo così. Immaginiamoci la situazione seguente: siamo sulle rovine di Varsavia, nell’estate del ’45, e io incontro un gruppo di connazionali in fuga dai territori dell’est della Polonia dove gli ucraini hanno ucciso circa centomila civili polacchi. Dico loro: ‘Ragazzi, sapete, tra settantacinque anni, una Germania democratica sarà il miglior alleato della Polonia in un’Europa di nuovo unita e i polacchi apriranno le loro case per accettare due milioni di profughi ucraini’. Potete immaginare? Nessuno ci crederebbe! Ecco, l’aiuto dei polacchi agli ucraini è una prova empirica che c’è speranza perché nessun odio è eterno”.

Con “La lettera dal passato”, scritta da Bruno Angeletti nel 1950, ripercorriamo una pagina della resistenza in Romagna, quella della Banda Corbari e dei repubblicani e socialisti che, fra l’altro, si prodigarono per mettere in salvo soldati e generali inglesi liberati dai campi di prigionia dopo l’armistizio ma ricercati dai tedeschi. Una resistenza poco conosciuta e anche trascurata. Ma sono lì le nostre medaglie d’oro.

“La visita” è alla tomba di Antonio Fratti. Avvocato, intellettuale militante mazziniano, di quelli che volevano mettere insieme mazzinianesimo e socialismo, partecipò, a fianco di Garibaldi alla terza guerra di indipendenza. Appena rieletto deputato, nel 1987, partì volontario per combattere a fianco dei greci nella guerra greco-turca e lì, a Domokos, morì in battaglia. Altri tempi.