Il candidato vicepresidente Usa di Trump, J.D. Vance, ha detto: “Le donne come Kamala Harris sono un branco di gattare senza figli”. Al di là del linguaggio colorito, questa frase è poco rispettosa dei drammi e delle disillusioni vissute da molte persone. Il fatto di avere o non avere figli non c’entra nulla con la dignità di un uomo o di una donna (e tanto meno con la simpatia verso i gatti…). Una donna o un uomo non valgono né di più né di meno se sono o non sono madre o padre. Tuttavia, al di là delle boutade da campagna elettorale, vale la pena riflettere sulla questione delle persone senza figli, perché il loro incremento è una delle novità più importanti della demografia dei paesi a sviluppo avanzato e -in particolare- della demografia italiana. Fra le donne residenti in Italia nate nel 1985, si stima che il 28% arriveranno a 50 anni senza figli. Fra le donne in età delle loro madri, nate nel 1955, questa proporzione è stata appena dell’11%. La proporzione di donne senza figli in Italia è fra le più alte del mondo, in linea con il Giappone e la Spagna, più del doppio rispetto agli Usa e alla Norvegia. E gli uomini senza figli, dovunque nei paesi sviluppati, sono ancora più numerosi rispetto alle donne senza figli.

Una questione di risorse economiche
Cosa sta dietro a questo grande cambiamento, realizzatosi nel breve giro di una generazione? Sgombriamo il campo dalle fake news: la grandissima parte delle persone senza figli è childless piuttosto che childfree, ossia è senza figli per costrizione, piuttosto che per scelta. Vi sono certamente motivi culturali: oggi la piena realizzazione di vita non passa necessariamente per la genitorialità, che deve potersi combinare con il successo professionale e con altre aspirazioni. Tuttavia, i motivi economici sono quelli prevalenti. Per formare una coppia convivente e per avere un figlio, le persone hanno bisogno di stabilità, ossia di una casa a prezzi accessibili, di un lavoro con un reddito decente per entrambi i partner, di buone prospettive per il futuro. Le donne senza figli sono più numerose nelle aree più povere del paese, addirittura il 40% fra le attuali quarantenni in Sardegna, Calabria, Basilicata e Molise, contro il 25% nel Triveneto. Ilaria Rocco, nella sua tesi di dottorato alla “Sapienza” di Roma, utilizzando micro-dati mostra che l’uscita dalla casa dei genitori, sia per gli uomini che per le donne, è legata in modo indissolubile al reddito disponibile: i più poveri restano più a lungo a casa con i genitori, ritardando in questo modo la formazione di una coppia convivente e la ricerca di un figlio. Fra gli attuali giovani di 25-34 anni, la proporzione in coppia convivente è molto minore rispetto a dieci anni fa. E spesso il rinvio si trasforma in rinuncia.

Rinvio e (forzata) rinuncia
Vi sono altre motivazioni. In molte persone e coppie prevale una specie di fallace “onnipotenza riproduttiva”, ossia l’idea che sia possibile rinviare sine die la ricerca di un figlio. La biologia della riproduzione però non è cambiata: dai trent’anni in su, per le donne come per gli uomini, la fertilità prima lentamente e poi rapidamente diminuisce, e oggi come cento anni fa, metà delle coppie con la donna quarantenne sono sterili o fortemente ipo-fertili. La procreazione assistita riesce talvolta a porre rimedio, ma per la donna non è una passeggiata, e i fallimenti sono assai più numerosi dei successi, in Italia come in tutta Europa.
L’aspirante vicepresidente Vance ha perso un’ottima occasione per stare zitto. La politica dovrebbe rimuovere gli ostacoli che rendono difficile, per un giovane, formare una coppia convivente stabile, e per una coppia convivente affrontare con serenità gli ostacoli economici e culturali che rendono difficoltosa la ricerca del primo figlio. Nel contempo, i giovani dovrebbero essere consapevoli che -se desiderano avere un bambino- è meglio per loro non sfidare i vincoli posti dalla biologia riproduttiva.