La copertina è dedicata a chi, negli Stati Uniti come a Tel Aviv, a Gaza, a Istanbul, a Tiblisi, a Budapest, a Belgrado, scende in piazza per protestare contro governanti prepotenti assetati di potere. Non a caso non citiamo la manifestazione di Roma per la pace e contro ogni riarmo, per il suo chiaro, anche se non dichiarato, risvolto antiucraino, dato che ormai sarebbe solo la resistenza degli ucraini a ostacolare l’accordo per una pace che non potrebbe che essere ingiusta. Stante l’intenzione dei promotori il corteo avrebbe potuto sfilare dietro a uno striscione con su scritto: “Lasciateci in pace, abbiamo i nostri problemi”, che si potrebbe intendere, più volgarmente, come “facciamoci i fatti nostri”. Una volta crollato l’equilibrio che da ottant’anni ci garantiva la protezione americana, tanti pensano che armarsi è inutile, perché il nemico è un colosso, comunque è lontano e a Roma non arriverà mai. Oggi, fra l’altro, si possono costruire armi di difesa altamente sofisticate, che se non servono a chi le detiene, possono sempre essere date al paese amico aggredito. Ma questo non interessa. Con un pieno appoggio occidentale all’Ucraina, “il colosso” poteva essere costretto a ritirarsi come avvenne con l’Afghanistan, grazie, appunto, alla fornitura di armi adatte, in quel contesto, a colpire l’aggressore. Quanto abbia incoraggiato Putin la certezza che tanta parte dell’opinione pubblica europea era indifferente, se non ostile, alla resistenza ucraina, non lo sapremo mai. Di certo non poco.
È da due anni che si contrappone il negoziato alla guerra, la parola alla forza. Ma se è vero, come dice Kazin nell’intervista che segue, che il prepotente è, al fondo, un insicuro, l’uso della parola può anche peggiorare la situazione. Interi gruppi umani sono stati perseguitati perché padroni della parola. Certo, la parola è importante ma solo se accompagnata dalla possibilità dell’uso della forza. È col coraggio che si può trattare con successo. Il cappello in mano lo si tiene quando ci si arrende.
Che poi la guerra sia una cosa orrenda lo sappiamo tutti. E per certi aspetti più di ieri, quando non sarebbe stato affatto semplice ordinare a dei soldati di far strage di bimbi in una scuola o di malati in un ospedale per terrorizzare un’intera popolazione. Oggi basta che un soldato, che probabilmente è una brava persona, accetti di spingere un bottone lontano centinaia di chilometri per diventare una Ss.
Del resto la prepotenza la vediamo diffondersi anche fra di noi, nella vita civile. Pensiamo alla piaga del bullismo, anche sui social. Anche qui la risposta del genitore, a un ragazzo disgustato dal bullismo, spesso è quella di farsi i fatti propri oppure di andare dal preside. Si rischia di insegnare a essere vili, quando bisognerebbe insegnare a intervenire sempre a difesa del maltrattato, del “messo in mezzo”. “Non isdegnare di pugnar lotta in difesa del debole”, scrive il partigiano al figlio, un anno prima di essere fucilato (dalla citazione sopra).
Anche rispetto al maschilismo si rischia di vederne la radice solo socio-culturale, il patriarcato, senza tenere nella giusta considerazione lo squilibrio della forza fisica, che sempre porta con sé la tentazione della prepotenza. Le proposte di colmare questo squilibrio, per quanto possibile, fanno sorridere i più, ma è un errore. E comunque su questo saranno le donne a decidere. Quel che invece riguarda tutti, uomini e donne, è l’impegno per ripristinare un codice d’onore fondato sul mutuo rispetto che comporti anche la punizione del prepotente con l’ostracismo.
La nonviolenza è una pratica naturale nella vita quotidiana delle comunità. Però altrettanto connaturata, e forse più, è la possibilità dell’uso e abuso della forza. Se facciamo della nonviolenza una regola assoluta escludiamo quelli che sono più che due principi, sono due istinti dell’essere umano: la legittima difesa e il pronto soccorso all’aggredita e all’aggredito, alla perseguitata e al perseguitato, alla violentata e al violentato. Da qui la regola forse più importante, quella della “non prepotenza”.
L’educazione a questo principio dovrebbe essere uno dei compiti principali delle comunità e in primis, ovviamente, della sinistra. Che fare? Un’idea, per esempio, potrebbe essere quella di promuovere nelle città la costruzione di “case della non-prepotenza”, gestite da volontari, dove poter accogliere e aiutare i bullizzati e le bullizzate, dove far corsi “di recupero” per ragazzi prepotenti, per insegnare loro che è miserabile “far gruppo contro qualcuno”, e poi gruppi di autocoscienza maschile, corsi di storia e di psicologia, lezioni e dibattiti nelle scuole su cosa significa l’onore, una palestra per arti marziali riservata alle donne, gruppi di pronto intervento e di vigilanza (pensiamo alla notte dell’ultimo dell’anno nelle grandi città).
Fra poco sarà il 25 aprile e tutti saremo lì, a celebrare la resistenza di partigiane e partigiani, armati dagli alleati angloamericani. Ma tanti di coloro che saranno in piazza hanno abbandonato in cuor loro la resistenza ucraina, arrivando in alcuni casi, forse per giustificarsi con se stessi, a denigrarla. Fa tristezza. Ma se poi, fra i più anziani di noi, ritorniamo alla nostra giovinezza, va anche peggio, perché per anni, quando avremmo potuto usare le migliori energie per costruire un’Italia migliore, abbiamo professato il culto della violenza, quella rivoluzionaria, forse quella sì, da negare in ogni caso.
In questo numero, Michael Kazin dagli Stati Uniti ci spiega, ma senza perdere la speranza, il disastro dei democratici; Konstanty Gebert ci parla di Polonia e Germania, dei rischi dell’avanzata delle destre, della tragedia della Bosnia e della lezione di Sarajevo: che “saper sparare” serve alla pace.
Per il 25 aprile, pubblichiamo l’intervista a Tonina Laghi, oggi scomparsa, che racconta di quando, da tredicenne operaia di una fabbrica chimica, diventò staffetta partigiana e di come lì, pur fra tante sofferenze e tragedie, avesse “toccato la felicità”; Roberto Masciadri racconta dei crimini di guerra e contro l’umanità commessi dai soldati italiani in Africa, Grecia, Albania, Jugoslavia, e di come, per scelta politica, non furono mai puniti; Costantino Di Sante ci parla degli italiani che per scelta o, i più, perché costretti, finirono internati in Germania a fare gli operai per Hitler; infine, Matteo Lo Presti ci ricorda i “tre grandi” di Ventotene e Alfonso Berardinelli ci parla di Guido Calogero, filosofo del dialogo e politico del liberalsocialismo: la formula più che mai valida per una sinistra di oggi.
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