Michael Kazin, professore di storia alla Georgetown University, già direttore della rivista “Dissent”; è autore, tra gli altri, di What It Took to Win. A History of the Democratic Party, Farrar, Straus and Giroux, 2022.

Queste prime settimane hanno causato un notevole scompiglio a livello nazionale e internazionale. Ti aspettavi un tale sconvolgimento?
Trump era stato molto chiaro durante la campagna elettorale. E in effetti, alcune delle cose che sta facendo ora, aveva cercato di farle già durante il suo primo mandato, ma non ci era riuscito per varie ragioni. Comunque nei mesi passati aveva chiarito molto bene le sue idee sui dazi, sull’immigrazione, sul rapporto con l’Europa, con la Nato e soprattutto con l’Ucraina.
Durante la campagna elettorale non aveva parlato di annettere il Canada o la Groenlandia, ma per il resto, il suo marchio di fabbrica, come sapete, è quello di scuotere le cose, di essere un perturbatore.
Aveva promesso che lo avrebbe fatto e un numero sufficiente di americani l’ha sostenuto a causa dell’aumento dei prezzi, imputato all’amministrazione di Joe Biden, in realtà dovuto all’inflazione.
È una figura insolita nella storia della politica americana: ha preso in mano il suo partito politico e ne ha mantenuto il controllo, di fatto, anche dopo aver perso le elezioni nel 2020. Nella politica americana rimanere il soggetto chiave del proprio partito, anche dopo aver perso le elezioni presidenziali, è una cosa anomala.
Cosa possiamo dire del Partito democratico? Qual è il suo stato di salute; sono in corso dibattiti all’interno del partito?
Come sapete, i Democratici sono diventati sempre più il partito degli americani con un’istruzione universitaria, di entrambi i sessi e di tutte le razze. Questa parte rappresenta però solo il 35% della popolazione votante. Abbiamo assistito a un’inversione di tendenza rispetto alla loro tradizionale base di sostegno, che fino agli anni Trenta era costituita dalla classe operaia, in particolare dai bianchi, e poi gradualmente anche dagli afroamericani e dagli ispanici.
Questa volta i Democratici hanno perso le elezioni, anche se devo sottolineare che gli Stati Uniti sono ancora un Paese diviso a metà in termini di potere di ciascun partito. Voglio dire, non c’è un partito di maggioranza. In questo momento i Repubblicani controllano la maggioranza, controllano il Congresso, controllano, ovviamente, la Casa Bianca e, di fatto, controllano la Corte Suprema.
Ma dal 2008 tutte le elezioni presidenziali sono state in realtà molto combattute.
I Democratici, al loro interno, sono divisi tra i progressisti o l’ala sinistra del partito e le figure più moderate. L’ala sinistra del partito sostiene, come me, un programma populista più aggressivo dal punto di vista economico. So che in Europa populista è un termine peggiorativo, ma avendolo inventato noi nel 1890, gli diamo un’altra accezione: qui si parla di populisti economici, populisti culturali, populisti di destra, populisti di sinistra.
Ecco, i populisti di sinistra del Partito Democratico vogliono colpire le grandi aziende, i miliardari come, ovviamente, Elon Musk e Donald Trump, e vogliono che ci sia un rinnovato sforzo per organizzare i lavoratori in sindacati o in qualche altro tipo di istituzione.
I Democratici più moderati non sono necessariamente contrari a tutto questo, ma vogliono evitare di essere visti come il partito della “sinistra bramina”, come l’ha definita Piketty.
Non vogliono essere identificati con questioni culturali come i diritti dei trans, il controllo delle armi e il cosiddetto Dei: Diversity, equity and inclusion.
Anche le circoscrizioni di questi due gruppi sono molto importanti. I Democratici moderati tendono a provenire da Stati che sono tradizionalmente repubblicani o in bilico, mentre l’ala sinistra del partito, la maggior parte dei suoi membri, operano in distretti democratici consolidati.
Per esempio, le due star della sinistra che hanno girato il Paese ottenendo grandi consensi, Alexandria Ocasio-Cortez di New York e Bernie Sanders del Vermont, provengono entrambi da aree democratiche molto sicure. Il Vermont è uno Stato fortemente democratico e anche New York è una città fortemente democratica, anche se Donald Trump ha ottenuto più voti lì alle ultime elezioni che nel 2020 o nel 2016. Tuttavia, il distretto di Ocasio-Cortez non ha votato per i Repubblicani da molti, molti decenni.
Quindi c’è una sinistra che vuole combattere Trump praticamente su ogni questione. E poi ci sono moderati che certamente si oppongono a ciò che Trump e Musk stanno facendo per ridimensionare il governo federale. Ma pensano anche di dover rispondere alle preoccupazioni degli americani più conservatori, comprese le questioni culturali. Invece la sinistra pensa che questi temi siano meno importanti e vuole concentrarsi sull’attacco ai ricchi, alle grandi aziende.
Rimane difficile capire come la classe operaia abbia votato per Trump. Cosa rappresenta per loro? È solo che i Democratici hanno fallito o c’è qualcosa di più?
In realtà è da un po’ di tempo che questo accade. Voglio dire, non è che i bianchi della classe operaia abbiano sempre votato per il Partito democratico. Una volta votavano per i Democratici al Congresso più di quanto non facciano ora, soprattutto nel Sud. Ma per la presidenza hanno votato per Richard Nixon nel 1972. Hanno votato per Ronald Reagan nel 1980 e nel 1984. Molti hanno votato per George W. Bush nel 2004. Quindi non è del tutto insolito che la classe operaia voti per i Repubblicani.
Tuttavia, nel corso degli anni, il brand democratico, per usare un termine commerciale, è stato associato, se non alla sinistra bramina, certamente a un’élite culturale, ai professori universitari, ai professionisti, alle grandi città, a chi legge il “New York Times”, il “Washington Post”, a chi guarda la Cnn, la Msnbc, la National Public Radio, vari media liberal.
Il fatto che i Democratici, per buone ragioni, negli ultimi anni si siano concentrati sulla giustizia razziale, sulla giustizia di genere, sul sostegno ai diritti di gay, lesbiche, bisessuali e queer ha fatto sì che una parte della classe operaia bianca si sia sentita esclusa.
La sociologa Arlie Hochschild, in un libro che ha scritto qualche anno fa sulla Louisiana, ha usato una metafora interessante: ha scritto che i lavoratori bianchi della classe operaia con cui ha parlato, molti dei quali lavoravano nell’industria petrolifera, sentivano che altre persone, diverse da loro, immigrati, neri, donne, stavano per così dire “tagliando la fila”, cioè li scavalcavano, passavano loro davanti. Questa gente era in coda per un lavoro, per un’opportunità, per il sogno americano e hanno visto questi altri gruppi passargli davanti con il sostegno dei Democratici, del governo, di chi sta in alto.
Ci sono fenomeni analoghi anche alla base del successo dei partiti di destra in Europa, come l’argomento secondo cui i migranti riceverebbero aiuti speciali, rispetto ai nati in Italia, in Germania, in Francia, che verrebbero quindi penalizzati. Questa è una delle cose che sono successe.
Il fatto poi che i Democratici tendano a non candidare persone provenienti da ambienti della classe operaia non aiuta. Ora, nemmeno i Repubblicani lo fanno, ma non sono loro il partito che si propone come rappresentante dei lavoratori. Se i tuoi rappresentanti sono regolarmente persone molto ricche o con un background cosmopolita, questo favorisce la percezione che il tuo sia un partito elitario.
Ora, voglio sottolineare che questo non ha impedito ai Democratici di vincere le elezioni in molte parti del Paese. Il fatto è che la politica americana in questo ultimo periodo si è profondamente polarizzata. Tanti sono Democratici perché odiano i Repubblicani e viceversa. E questo vale a prescindere dalla classe e dall’origine.
Trump sta forzando i limiti del sistema. Quali strumenti, quali armi hanno i Democratici per affrontare questo problema? Vedi un rischio per la democrazia?
La settimana scorsa ho scritto un articolo per la rivista “The Nation”, che parla un po’ di questo.
I Democratici devono fare due cose contemporaneamente, impresa non facile. Da un lato, devono difendere le conquiste istituzionali realizzate, a partire dal New Deal negli anni Trenta, quindi la Social Security, Medicare, Medicaid, in pratica lo stato sociale americano, che è limitato rispetto a molti welfare europei, ma comunque è una presenza importante per milioni di persone. I Democratici avrebbero così modo di concentrarsi su programmi veramente popolari: Medicare è un aiuto fondamentale per le persone con più di 65 anni. La previdenza sociale può essere ottenuta da chi ha più di 62 anni; Medicaid è l’assistenza sanitaria per le persone più vulnerabili, soprattutto per i poveri, e molti altri programmi del genere.
Ma non possono difendere tutte le istituzioni. Trump e Musk ora stanno cercando di eliminare il Dipartimento dell’Istruzione, che esiste dalla fine degli anni Settanta. La maggior parte degli americani non ha idea di cosa faccia. Beneficia di una quota limitata del bilancio federale. La cosa più importante che fa è forse aiutare a finanziare i prestiti universitari per le persone con un reddito basso, chiamati “Pell Grants” dal nome di un ex senatore. Per il resto, se il Dipartimento dell’Istruzione sparisse, la maggior parte degli americani non se ne accorgerebbe perché non riceve aiuti diretti da esso.
Ora ci sono anche proteste contro la perdita del posto di migliaia, addirittura decine di migliaia, di dipendenti federali. Ma, ancora una volta, il tipo di elettori che i Democratici dovrebbero riconquistare o tenere dalla propria parte sono persone che non lavorano nel governo, ma nel settore privato, per i quali, onestamente, essere licenziati e dover trovare un altro lavoro non è un’esperienza inusuale. Voglio dire, questa è una cosa che succede abitualmente alla classe operaia americana che non ha la sicurezza del posto fisso.
Oltre a difendere il proprio programma dal governo di Trump e Musk, devono anche pensare al futuro. Devono cioè essere progressisti nella definizione del termine. Come possono fare appello alle persone che hanno perso lungo la strada? Come parlare del futuro?
Ritengo che molti programmi dei Democratici possano migliorare la vita della classe operaia.
Gran parte della paura e dell’ansia degli americani riguarda il futuro del lavoro. Molti americani devono fare due o tre lavori: guidano per Uber o Lyft, salgono su biciclette elettriche e portano il cibo alle persone. E poiché i posti di lavoro sindacalizzati, soprattutto nel settore privato, sono così pochi (solo il 6%), il loro posto è precario e i loro salari non sono molto alti. Oggi persino lavori altamente qualificati nel campo della medicina vengono assorbiti dall’Ia. Gli anestesisti, per esempio. C’è quindi una vera e diffusa ansia per il futuro del lavoro.
I Democratici potrebbero fare molto in questo senso, parlando di riqualificazione, per esempio. Ma io non sono un politico, sono uno storico. So che ci sono diverse idee progressiste anche in materia di tassazione, come quella di Elizabeth Warren, senatrice del Massachusetts, che ha parlato di una tassa sul patrimonio per le persone che guadagnano milioni o persino miliardi di dollari.
In conclusione, il punto è che i Democratici americani, a mio avviso, dovrebbero prospettare un futuro migliore, non solo arroccarsi sulle conquiste del passato, perché c’è una buona ragione per cui un cospicuo numero di americani ha sostenuto Trump, anche se sapevano che avrebbe attuato o cercato di attuare alcuni cambiamenti piuttosto radicali.
Ora, finché l’economia rimarrà abbastanza prospera, Trump può reggere. Bisognerà vedere cosa succederà quest’autunno e nel 2026 alle elezioni di midterm. Ma è molto probabile che, se l’inflazione non salirà molto, se la disoccupazione rimarrà sotto controllo, se la previdenza sociale e il Medicare non saranno tagliati come i Democratici temono che possa accadere, i tagli al governo, piuttosto draconiani, che Trump e Musk stanno cercando di portare avanti non daranno fastidio a un numero di americani sufficiente a danneggiare i Repubblicani.
Ti chiedevo anche se vedi un rischio per la democrazia, per il sistema...
Beh, sì e no. Da un lato, Trump sta ricorrendo molto agli ordini esecutivi, uno strumento che permette ai presidenti di dire semplicemente: “Voglio che sia fatto questo”, però sono decisioni che possono essere revocate dal presidente successivo. Non sono leggi passate al Congresso.
Alcune delle cose che sta facendo sono chiaramente incostituzionali. In particolare, sta cercando di eliminare la cittadinanza per diritto di nascita, la parte del 14° Emendamento della Costituzione ratificato nel lontano 1860, che dice che chiunque nasca sul suolo americano è cittadino americano, indipendentemente dai genitori. È lo jus soli. Anche questo attraverso un ordine esecutivo.
Non c’è quasi nessun giudice o avvocato, anche molto conservatore, che pensi che questo sia costituzionale, perché l’emendamento dice chiaramente che chiunque nasca negli Stati Uniti è un cittadino americano. Poi c’è il tema dei licenziamenti… Ma perché la democrazia sia davvero minacciata, dovremmo trovarci nella situazione in cui, davanti a una sentenza del tribunale, lui reagisca dicendo: “Non mi importa. Andrò avanti lo stesso”.
C’è una teoria conservatrice a riguardo, chiamata dell’“esecutivo unitario”, che sostiene che il presidente può fare tutto ciò che vuole in termini di dipartimenti che fanno parte del ramo esecutivo del governo. Questa è un’ampia parte del governo: è praticamente tutto ciò che non è il Congresso e la magistratura; sono incluse le agenzie fondate per essere indipendenti, come il National Labor Relations Board, un ente che facilita e garantisce i diritti dei lavoratori di organizzarsi e formare sindacati nel posto di lavoro.
Insomma, vedremo come si comporterà davanti ai tribunali. Ma, naturalmente, la democrazia si basa anche sulle elezioni. Mi sembra poco verosimile -anche se con Trump non si può mai sapere- che arrivi a dire: “In questo paese è in atto una grave crisi: non possiamo tenere delle elezioni”. Voglio dire, non è mai successo durante la guerra civile americana, con 750.000 americani morti e ampie zone del Paese occupate da un regime diverso che combatteva gli Stati Uniti d’America.
Anche allora le elezioni si tenevano regolarmente sia nel nord che nel sud di questi due Paesi; così come si tennero durante la Prima e la Seconda guerra mondiale. Ritengo che sarebbe incredibilmente impopolare, non solo tra i Democratici, ma anche tra i Repubblicani, se anche solo accennasse a qualcosa del genere.
Quindi, in questo senso, sono abbastanza fiducioso che i fondamentali di un Paese democratico reggeranno, che si continuerà a votare, che i tribunali continueranno a funzionare.
Probabilmente Trump cercherà di non violare in modo diretto un ordine del tribunale, ma di aggirarlo. La democrazia potrebbe essere davvero in pericolo se Trump volesse diventare un altro Putin, Orban o Kim… ma questo non succederà. Le istituzioni americane sono abbastanza forti da impedirlo.
Si dice che Elon Musk sia per certi versi più pericoloso.
Però la sua attuale posizione è dovuta a Trump che, in qualsiasi momento può dire: “Grazie mille per il tuo servizio. Non abbiamo più bisogno di te”.
Trump ha una caratteristica abbastanza tipica degli autoritari: è un uomo molto insicuro. Il fatto stesso di avere l’appoggio entusiasta e l’aiuto dell’uomo più ricco della storia del mondo, quello che ha spedito i razzi nello spazio e che fa cose molto eccitanti, lo fa sentire un grande uomo. Ma Musk è ora più impopolare di Trump. I Democratici stanno tenendo riunioni in tutto il Paese, nei loro distretti e altrove, e stanno attaccando Trump, ma ancor di più Musk. In effetti, ho visto anch’io questi adesivi sui paraurti qui a Washington e negli stati limitrofi. Le persone che possiedono una Tesla ora mettono delle decalcomanie anti-Musk sulle loro auto; come a dire: ho una Tesla, ma Musk non mi piace più di quanto piaccia a te. La sua popolarità è in caduta libera, se non tra i Repubblicani più accaniti. Ma finché non sarà fermato dai tribunali o da Trump, continuerà a fare danni.
Ma c’è un dibattito interno ai Repubblicani, tra le due anime del partito, quella sociale e quella libertaria?
Probabilmente avete visto Steve Bannon, che era un stretto consigliere di Trump: ha usato un linguaggio molto forte contro Musk. Intanto lui non è nato negli Stati Uniti e persone come Bannon sono sospettose di chiunque non sia nato qui. Ma anche, cosa più importante, è difficile fare un partito populista avendo un miliardario non eletto e con un tale potere.
Il fatto è che, in un sistema bipartitico come quello degli Stati Uniti, ogni partito è una coalizione di forze che convergono su alcune cose e sono in disaccordo su altre. I Repubblicani sono una coalizione di alcuni degli americani più ricchi, di ideologi populisti come Bannon, di gente contro l’immigrazione, che vogliono i dazi, che sono sospettosi della Nato, che si oppongono all’aborto, ai diritti Lgbtq. Tendenzialmente si tratta di persone religiose, sia protestanti che cattoliche, e in qualche misura anche ebree e musulmane, ma soprattutto conservatori cristiani.
Per vincere le elezioni, Trump ha dovuto tenere assieme tutte queste persone.
In un Paese diviso più o meno al 50%, nessun partito politico può permettersi di alienarsi una di queste componenti. Se aggiungi che per vincere hai bisogno di enormi quantità di denaro (è osceno, ma è così che funziona il sistema), persone come Elon Musk, che donano milioni di dollari ai Repubblicani, sono molto utili.
Quindi è indubbio che ci sia tensione tra i diversi gruppi del Partito repubblicano, gli oligarchi come Musk e l’anima populista alla Steve Bannon, ma entrambe le parti sono consapevoli della necessità di non rompere la coalizione.
Si parla molto di questa crescente polarizzazione tra le due Americhe.
Questo è, ovviamente, un tema per entrambi i partiti. Ma oggi riguarda specialmente i Democratici che al momento non sono al potere. Come conquistare le persone che non ti votano o che hanno smesso di votarti? Come dicevo, a mio avviso serve una forte piattaforma economica, sia in termini di retorica che di programmi concreti capaci di dimostrare che i Democratici sono davvero impegnati per il benessere di questi gruppi.
Teniamo poi presente che i Repubblicani stanno cercando di conquistare alcuni elettori sulle questioni culturali. Uno degli annunci più efficaci di Donald Trump nel 2024, di cui forse avete sentito parlare, riguardava proprio i diritti dei transgender. Lo spot, in polemica con Harris era molto efficace e diceva: “Kamala is for they/them, President Trump is for you”.
È la questione del pronome.
Esattamente. Ci sono persone, soprattutto della classe operaia, ma anche afroamericani, ispanici, che hanno votato per Trump e che da un po’ di tempo votano per i Repubblicani, che sono a disagio con il discorso sulle cosiddette minoranze culturali e che non apprezzano l’idea che i Democratici si rivolgano più a queste che alle persone come loro.
Credo che Trump abbia conquistato un certo successo anche grazie a questi elettori. Anche a New York, dove gli elettori ispanici hanno votato per lui con percentuali superiori rispetto al 2020.
I Repubblicani, anche se cercano di presentarsi come il partito della classe operaia, per ora vincono solo tra i bianchi e comunque hanno un problema di credibilità proprio per l’ala ricca e libertaria del partito. Quindi hanno puntato molto sulla battaglia culturale.
Qual è il peso della questione dell’immigrazione in tutto questo?
L’immigrazione è una questione che i Democratici non sono riusciti ad affrontare in modo serio. Hanno compreso con grande ritardo che l’immigrazione clandestina aumentata sotto Biden, in parte in reazione al blocco di Trump nel suo primo mandato, e a causa della povertà e della criminalità in America centrale, soprattutto in Venezuela, che è una sorta di Stato fallito, era un problema, soprattutto per gli operai.
Ovviamente queste persone hanno buone ragioni per cercare di scappare, proprio come le persone in Nord Africa hanno buone ragioni per cercare di arrivare in Italia. Ma questo è un fenomeno molto impopolare proprio tra gli operai, come lo è in Italia, e i Democratici ci hanno messo troppo tempo a capirlo e a fare qualcosa.
La dimostrazione più brutale della loro mancanza di comprensione è stato scoprire che il Texas meridionale, che si trova proprio al confine con il Messico, a maggioranza messicano-americana, ha votato per Trump. Parliamo di un’area tradizionalmente molto democratica. Si tratta di cittadini messicano-americani, di immigrati legali che hanno votato Trump per trattenere gli immigrati clandestini perché una sovrappopolazione di immigrati, in un contesto di risorse limitate, li avrebbe danneggiati. Considera che alcune di queste persone hanno praticamente votato per non far venire illegalmente dei loro parenti.
Ora, l’ironia è che Trump pare stia riuscendo a fermare quel flusso, almeno sul confine meridionale. Ecco, questa sua ostilità nei confronti degli immigrati potrebbe avere l’effetto paradossale di far uscire questo tema dall’agenda politica. Se ciò accadesse, i Repubblicani perderebbero uno dei loro temi principali per conquistare la gente.
Una cosa simile è accaduta negli anni Trenta. Negli anni Venti, con un Congresso repubblicano e un Presidente repubblicano, si stabilirono delle quote molto severe per gli immigrati provenienti da ogni luogo tranne che dall’Europa occidentale. C’erano circa duecento persone all’anno che potevano venire dall’Italia, per esempio. L’immigrazione dalla Russia, dall’Asia orientale fu completamente bloccata, a eccezione delle Filippine, che erano una colonia americana. Ebbene, l’effetto imprevisto fu che, in un Paese che aveva visto un’enorme immigrazione fino alla Prima guerra mondiale, tale flusso si interruppe. La maggior parte delle persone provenienti da contesti di immigrazione, sia che fossero essi stessi immigrati o che lo fossero i loro genitori, si identificarono presto come americani. A quel punto, i Democratici poterono fare appello ai loro potenziali elettori sulla base della classe piuttosto che dell’etnia e del paese di origine. Quindi, quella dura norma repubblicana sull’immigrazione finì per aiutare i Democratici.
Qualcosa di simile potrebbe accadere di nuovo, cent’anni dopo.
Veniamo alla situazione internazionale. Trump sta trasformando gli alleati in nemici.
Non è la mia area di competenza, ma molti sostengono, e credo sia corretto, che l’egemonia americana, se non è finita, lo sarà presto. I cittadini dell’Ue, per quanto divisi, sono spinti a essere più indipendenti in termini di forza militare e, in un certo senso, anche dal punto di vista economico. Cina e Russia si trovano oggi in una sorta di alleanza de facto. L’India si trova lì nel mezzo. L’ostilità di Trump nei confronti di Canada e Messico potrebbe indurre questi Paesi a cercare di instaurare rapporti commerciali con altri partner. Quindi è probabile che il periodo di massimo splendore dell’impero americano sia finito, anche se gli Stati Uniti rimangono ancora di gran lunga la più grande potenza militare ed economica del mondo. Tutto questo contribuisce a creare quello stato d’ansia e preoccupazione che oggi provano gli americani. Non è affatto chiaro in quali settori l’America del futuro potrebbe essere leader. Certo non si tratterà delle auto elettriche, la Cina ne produce di migliori. Pure sull’intelligenza artificiale, la Cina e altre nazioni potrebbero fare altrettanto bene.
Gli Stati Uniti sono stati leader nella ricerca scientifica, ma una delle cose che Trump sta facendo è proprio tagliare i fondi per la scienza e la ricerca. Emblematicamente, il farmaco oggi più popolare negli Stati Uniti è l’Ozempic, prodotto da un’azienda danese.
È possibile che Trump stia accelerando il declino dell’America e l’emergere di un mondo sempre più multipolare.
Per concludere?
Voglio aggiungere che io mantengo qualche speranza. Come dice Gramsci, nei periodi di interregno compaiono sintomi morbosi. Trump potrebbe essere uno di questi, certo un sintomo di enormi proporzioni! Se si guarda a quello che sta facendo, in un certo senso sembra prendere le distanze dal neoliberismo, ma non del tutto, basti pensare al rapporto con Musk, però sta cercando di tenere assieme elementi diversi.
Questa operazione potrebbe fallire e spianare la strada a un’amministrazione populista ancora più viscerale. Oppure potrebbe creare le basi per una sorta di rinascita della socialdemocrazia. In realtà non abbiamo mai avuto una socialdemocrazia in questo Paese, ma se l’ala di sinistra del Partito democratico, con il sostegno di alcuni moderati, riuscisse a vincere le elezioni nel 2026 e naturalmente a riconquistare la presidenza nel 2028, potrebbe riuscire a portare a termine alcune delle cose promesse da Joe Biden, se nel frattempo si fosse creato un contesto economico più favorevole.
Quello di Biden era un piano piuttosto ambizioso per la politica industriale, per la creazione di posti di lavoro nel settore dell’energia verde, per la sindacalizzazione, l’assistenza all’infanzia coperta dal Governo (che non abbiamo mai avuto in questo Paese), eccetera.
Se controllassero sia la Camera che il Senato, quello che i Democratici vorrebbero fare è in realtà davvero alla nostra portata. Ma naturalmente, visto il modo in cui funziona il sistema politico americano, per farlo bisogna avere maggioranze schiaccianti. È uno dei motivi per cui la politica americana è bloccata da molti decenni, dagli anni Settanta probabilmente, perché da allora nessuno dei due partiti ha ottenuto una maggioranza abbastanza a lungo da poter realizzare piani del tipo di quelli varati da Lyndon Johnson a metà degli anni Sessanta e, prima, da Franklin Roosevelt negli anni Trenta.
Quindi, qui sta sia il problema che l’opportunità: se i Democratici riuscissero a rimettersi in carreggiata e a riconquistare la maggioranza, le loro proposte potrebbero portare a un futuro migliore, almeno a un futuro che sia io che voi saremmo pronti a sostenere.
(a cura di Barbara Bertoncin)