2 giugno 2009. Debito insufficiente
Il New York Times continua a seguire le vicissitudini delle vittime della crisi e oggi racconta la storia di Eileen Ulery (Mesa, Arizona) che, dopo aver sentito le parole di Obama sugli aiuti a chi, per colpa della crisi, non riesce a pagare il mutuo, ha chiamato la società finanziaria cui si era appoggiata (ora parte di Bank of America) la quale le ha invece proposto un nuovo mutuo a un tasso un po’ superiore.
Il suo problema pare sia che non ha abbastanza problemi da meritare aiuto. Allo stato attuale, infatti, a differenza di tanti altri, Eileen Ulery è riuscita a non mancare un pagamento, e tuttavia il baratro è vicino dato che è disoccupata. Una portavoce del Tesoro, Jenni Engebretsen, ha confermato che il caso della signora Ulery rientra tra quelli previsti per la rinegoziazione del mutuo. Peccato che invece alla Bank of America tale formula sia per ora riservata solo a chi è sull’orlo del pignoramento. A tutti gli altri la proposta è un nuovo prestito!
Il caso della signora Ulery è singolare e a suo modo tipico: a 63 anni è entrata in una condizione di disagio non per l’accesso a prestiti azzardati o speculazioni finanziarie, ma semplicemente perché ha perso il lavoro. Ha acquistato il suo bicamere nel 1997 e ha alle spalle vent’anni di lavoro nell’amministrazione dell’Università dell’Arizona, con uno stipendio più che dignitoso. Peccato che, come decine di milioni di americani, con l’aumentare del valore della sua casa, abbia esteso il valore del suo mutuo, usando i soldi per acquistare una nuova macchina e rifare il tetto. Anche se la rata mensile era salita da 600 a 1000 euro, era tutto sotto controllo. L’equazione si è rotta l’anno scorso quando ha perso il lavoro e ha dovuto scoprire che la sua banca, pur avendo avuto grossi aiuti pubblici, non la considera tra quelli da aiutare con una rinegoziazione, ma solo con un assurdo nuovo prestito ad alto tasso. Morale della favola lo Stato sta foraggiando proprio i soggetti all’origine dell’attuale crisi finanziaria: "Ma come, sono proprio quelli di cui non ci si sarebbe dovuti fidare neanche prima!?” ha commentato amaramente la signora Ulery.
(www.nytimes.com)
4 giugno 2009. Il Libano e la corruzione
Sul Daily Star, quotidiano libanese, è uscito un editoriale di denuncia di quello che risulta essere il maggiore ostacolo allo sviluppo del Medio Oriente: la corruzione.
Transparency International ha infatti da poco pubblicato i risultati del "Barometro globale della corruzione” da cui risulta appunto che gli abitanti dei paesi arabi e del Medio Oriente continuano ad avere comportamenti tutt’altro che virtuosi. Il grafico della percentuale di persone che hanno dovuto pagare una bustarella negli ultimi 12 mesi parte da un preoccupante 40% in Medio Oriente, per poi scendere fino al 2% negli Stati Uniti.
Il rapporto, che ha monitorato Libano, Iraq, Marocco e Kuwait, si è preoccupato anche di raccogliere la percezione della popolazione rispetto ai partiti, al Parlamento, al potere giudiziario e ai media. In Libano pare che a vincere la gara della corruzione siano stati i partiti politici. Ma in generale neanche il Parlamento, i media, il potere giudiziario, ecc. hanno fatto bella figura. Infatti per decidere il luogo da cui partire con la lotta alla corruzione non c’è che l’imbarazzo della scelta. La corruzione resta un grave problema in Libano, e in Medio Oriente in generale, per il buon funzionamento del sistema giudiziario e perché si consolidi un vero stato di diritto.
"E’ un problema di tutti”, conclude l’editorialista e chi vince le elezioni non dovrà dimenticarsi che la sua credibilità è strettamente condizionata alla lotta che saprà ingaggiare contro la corruzione. "Dovunque questo paese sia diretto, deve arrivarci in modo sicuro e l’unico modo per intraprendere questo viaggio in sicurezza e tranquillità è quello di cacciare questo virus”.
(www.dailystar.com.lb)
9 giugno 2009. Partito pirata in Europa
Dei 18 deputati all’Europarlamento che spettano alla Svezia, uno è "pirata”. Il Piratpartiet è infatti riuscito a raccogliere il 7,1% delle preferenze, diventando la quarta forza politica del Paese. Il capolista, Christian Engstrom, è entusiasta: alle elezioni politiche dello scorso gennaio la sua formazione aveva ottenuto solo lo 0,6%. A guidare in questa direzione le preferenze degli elettori svedesi hanno probabilmente contribuito sia la condanna inflitta a The Pirate Bay (uno dei maggiori siti di scambio di file via internet al mondo), sia l’entrata in vigore della legge antipirateria. Nel programma da portare a Strasburgo: l’abolizione dei brevetti (in particolare quelli farmaceutici), la riforma del copyright e la difesa della privacy.
(www.zeusnews.com)
13 giugno 2008. Per la quinta volta?
La scorsa settimana, dopo un’attesa di oltre due anni, i tre giudici della Corte Suprema israeliana (Eliezer Rivlin, Ayala Procaccia e David Cheshin) hanno rigettato il secondo appello della famiglia Shawamreh per il ritiro di un ordine di demolizione che pende sulla loro casa da 19 anni. La richiesta di un permesso di costruzione è stata ugualmente rifiutata e da sabato 7 giugno l’Amministrazione Civile è autorizzata a demolire la loro casa.
Per la quinta volta.
Nel giornale ne abbiamo parlato più volte. Salim aveva chiesto invano alle autorità israeliane il permesso per costruire sulla terra che aveva acquistato ricevendo vari dinieghi, nel ’93 "perché il terreno è agricolo”, nel ’94, "perché il pendio è troppo ripido”, nel ’98, "perché mancano due firme sul titolo di proprietà del terreno”.
L’avvocato della famiglia aveva chiesto all’Amministrazione civile israeliana di chi fossero le firme mancanti, senza ottenere risposta. Allora Salim aveva fatto firmare a tutti gli abitanti di Anata una dichiarazione attestante l’assenza di pretese sul suo terreno. L’esercito israeliano aveva comunque distrutto la casa.
Oggi la casa, più volte ricostruita dall’Icahd, il Comitato contro la demolizione delle case, coordinato da Jeff Halper, è adibita a centro per la pace ed è dedicata a Rachel Corrie, la giovane attivista americana morta investita da un bulldozer, ed a Noha Sweedan, palestinese morta nel corso della demolizione della sua casa.
(www.icahd.org)
15 giugno 2009. Io non respingo
In Libia vivono alcune centinaia di migliaia di immigrati. Ogni anno circa 20-30.000 persone tentano la traversata verso Lampedusa. Uno su tre riceve un permesso di soggiorno come rifugiato politico o per protezione internazionale. Dal 2003 l’Italia e l’Unione europea chiedono alla Libia di fermarli.
1000 sacchi da morti
Nel 2003 il governo Berlusconi sigla un accordo segreto con Gheddafi per il contrasto dell’immigrazione. L’Italia invia in Libia 100 gommoni, 6 fuoristrada, 3 pullman, 40 visori notturni, 12.000 coperte di lana, 6000 materassi, 50 navigatori satellitari, e 1000 sacchi per cadaveri.
Campi oltre frontiera
Secondo un rapporto della Commissione Europea, nel 2004 l’Italia finanzia la costruzione di tre campi di detenzione per immigrati in Libia: a Gharyan, Sebha e Kufrah.
Dirottamento aereo
Tra il 2003 e il 2004 l’Italia paga 47 voli per rimpatriare 5.524 migranti arrestati in Libia. Il 27 agosto 2004 un aereo diretto in Eritrea viene dirottato in Sudan dai passeggeri: temevano di essere perseguitati in patria.
Corte Europea
L’11 maggio del 2005 la III Sezione della Corte Europea dei diritti dell’uomo sospende le espulsioni verso la Libia da Lampedusa, dopo che dall’ottobre del 2004 già 2000 persone erano state deportate.
Vedi Kufrah e poi muori
Nel 2006 Amnesty International e Human Rights Watch accusano la Libia per il trattamento inumano dei migranti. "A Kufrah dormivamo in celle di sei metri per otto, nella mia eravamo in 78 persone... Un piatto di riso lo dividevamo in otto”.
Venduti per 30 denari
Secondo il documentario "Come un uomo sulla terra”, la polizia libica vende i migranti arrestati agli intermediari che li riporteranno sul Mediterraneo. Ogni prigioniero è venduto per 30 dinar (18 euro).
Deportazioni nei container
Arrestati sulla costa, i candidati all’emigrazione sono trasportati all’interno di container verso i campi di detenzione. "Eravamo 264, ci stiparono su due camion, chiusi in un container, al buio”.
Terminal Sahara
Migliaia di migranti e rifugiati ogni anno sono riaccompagnati alla frontiera meridionale libica e abbandonati a se stessi in mezzo al Sahara.
Prigionieri politici
Dal dicembre 2006, oltre 600 rifugiati politici eritrei arrestati sulla rotta per Lampedusa sono mantenuti in detenzione amministrativa nel carcere di Misratah, in Libia. In Europa avrebbero diritto all’asilo.
Accalappiati come cani
Nel 2005, il prefetto Mario Mori, ex direttore del Sisde, dichiarava al Parlamento: "In Libia i clandestini vengono accalappiati come cani... e liberati in centri... dove i sorveglianti per entrare devono mettere i fazzoletti intorno alla bocca per gli odori nauseabondi”.
Pattugliamento congiunto
Il 29 dicembre 2007 il governo Prodi ha siglato un accordo di pattugliamento congiunto per riportare in Libia i migranti intercettati in mare. Ad oggi l’accordo non è ancora operativo.
Più petrolio e meno immigrati
Il 30 agosto 2008, dopo aver firmato a Bengasi il patto di amicizia tra Italia e Libia, il presidente del consiglio Berlusconi dichiara: "Avremo meno clandestini e maggiori quantità di gas e petrolio”.
(http://fortresseurope.blogspot.com)
19 giugno 2009. Colonialismo, terrorismo, dittatura
Il modo della visita di Gheddafi a Roma nei tre giorni tra il 15 e il 17 giugno e molti dei commenti giornalistici mi hanno creato un disagio profondo per motivi che provo ad esprimere perché forse sono generali ed interessano anche altri.
Non mi ha stupito la teatralità, la personalizzazione, il tentativo di dominare la scena, il presumibile intrecciarsi di accordi economici pubblici e di interessi economici privati. Ci sono abituato per ciò che vediamo in casa nostra. Ne sono indignato; sono, come sempre, quasi stupito della inesistenza di un discorso pubblico sull’uso dei fondi sovrani, sulla politica energetica, sui diritti civili -della inesistenza della opposizione, insomma- ma non ho visto nulla di peggio del solito. Caso mai mi ha stupito la capacità dell’ospite di usare i media anche senza esserne il padrone o il controllore, anche se probabilmente l’uso e abuso dei media faceva parte dell’accordo.
Personalmente ho condiviso le manifestazioni contro i respingimenti e per i diritti dei rifugiati. Nella misura minima in cui mi riesce di farlo ci ho anche partecipato. E’ l’unica cosa su cui ci siano ambienti con una posizione definita, esprimibile. Petrolio o non petrolio, affari o non affari, sicurezza o non sicurezza, non si trattano così i migranti e i profughi. Né a casa nostra né in Libia.
Il disagio nasce dalla ambiguità e contraddittorietà di altri aspetti. Gheddafi è venuto a rivendicare la propria condizione di ex-colonizzato, ad accusare l’Italia e gli italiani della passata avidità e ferocia, ad accusare di terrorismo la potenza imperiale dominante, a sostenere la necessità di guardare alle cause sociali della violenza degli oppressi. Certo ha ragione, almeno all’ingrosso. E giustamente gli ha dato ragione Angelo Del Boca; e giustamente è stato trasmesso Il leone del deserto.
Ma le cose non possono essere sistemate così.
Nelle riconciliazioni è il colpevole -colpevole a titolo storico e per la continuità dello stato- che si scusa e la vittima che riconosce la discontinuità tra il presente e il passato ed accetta di non proiettare nell’oggi il giusto disprezzo per i colpevoli di ieri. E’ Willy Brandt che va ad inginocchiarsi ad Auschwitz, proprio perché lui era in esilio e si batteva contro quei massacri, proprio perché non è personalmente colpevole, non i discendenti degli ebrei e degli altri sterminati che vanno a fare cortei tronfi a Berlino. Forse non c’è stata da parte dell’Italia una richiesta di scuse alta, e simbolica adeguata; certo gli italiani che lavorano -magari anche quelli che in Libia andarono a lavorare, non ad impiccare- non meritano di essere messi insieme a Graziani e ai politici della terza sponda. Caso mai è il governo italiano attuale che sembra badare solo ai soldi e non ha trovato una frase, un gesto, adeguati alle tragedie e alla oppressione di ieri a rassomigliare ai governanti di allora.
Ma anche l’accenno alle cause sociali del terrorismo è imbarazzante. Gheddafi è stato terrorista in proprio. Sono riconducibili a lui almeno due episodi definiti, per non parlare di ciò che non sappiamo. Non può invocare le cause sociali di se stesso.
E’ come quando i terroristi nostrani invocano le cause sociali e la necessità storica per giustificare se stessi. Certo ci sono cause sociali. Certo la impossibilità della sinistra italiana di vincere le elezioni perché non era gradita alla potenza dominante hanno reso impossibile uno sbocco politico adeguato e causato o contribuito a causare il terrorismo.
Ma questo non scusa né i terroristi, che hanno personalmente scelto di uccidere, né i leader comunisti, che hanno impiegato quarant’anni a dirci chiaramente, in modo comprensibile e inequivocabile, che cosa non condividevano del totalitarismo russo. E anche oggi hanno abbandonato più la difesa del basso che la tendenza al governo purchessia.
Resta il totalitarismo del colonnello, il sistema politico in Libia, la oppressione dei lavoratori stranieri e dei migranti, la repressione del dissenso, il patrimonialismo, il blocco tra il potere nato dal golpe militare e i poteri tradizionali.
A questo proposito ho trovato particolarmente imbarazzanti le poche righe di Valentino Parlato intervistato a p. 5 della Stampa di venerdì 12.
La Libia sembra avere ereditato pari pari l’organizzazione dello stato fascista. E non ha trascurato di tentare una politica colonialista verso sud. Il fatto che le organizzazioni, le forme di rappresentanza, rassomiglino anche a quelle dei partiti comunisti, con l’organizzazione dei giovani, delle donne, le corporazioni, non le rende meno fasciste.
In Libia vige ancora il codice Rocco -come da noi, direte- ma senza la cancellazione delle norme in contrasto con la Costituzione della Repubblica.
E allora perché dire che in fin dei conti l’abolizione dei partiti era anche il progetto comunista? Che la sovranità popolare può esprimersi anche senza la mediazione dei partiti?
Non mi sembrava che il Manifesto avesse rotto col Pci -fosse stato espulso, per l’esattezza- e avesse fondato o contribuito a fondare una lunga serie di partiti perché aspirava al partito unico. Devo aver capito male.
(Francesco Ciafaloni)
22 giugno 2009. Portare la democrazia in Iraq
Il 25 ottobre, alcuni iracheni nudi, con le mani legate e le gambe incatenate, vennero ammassati uno sopra l’altro come una catasta di legna. Adel Nakhla, una collaboratrice civile che lavorava come traduttrice a contratto, in seguito dichiarò che "legarono loro le mani con le manette e le gambe con delle catene ed iniziarono ad ammassarli uno sopra l’altro, assicurandosi che il pene di quello che stava sotto toccasse il fondoschiena di quello sopra di lui”. Le sere seguenti i detenuti vennero lasciati nudi e alcuni furono costretti a masturbarsi di fronte alle donne soldato. Il 4 novembre, un prigioniero fu incappucciato, messo in piedi su una panca, e gli furono attaccati dei fili che, gli venne detto, lo avrebbero fulminato se fosse sceso dalla panca. La stessa sera un detenuto della Cia morì mentre si trovava sotto custodia del Tier 1B, dopo essere stato picchiato dai Navy Seal che lo avevano catturato. Un prigioniero raccontò più tardi agli investigatori dell’esercito di essere stato costretto ad "abbaiare come un cane, strisciando a pancia in giù, mentre gli MP gli sputavano addosso e urinavano su di lui, e di essere stato colpito fino a perdere conoscenza”. Disse anche di essere stato sodomizzato con un bastone. Gli inquirenti ritenevano "altamente probabile” che le sue dichiarazioni fossero veritiere.
(tratto da Thomas E. Ricks, Il Grande fiasco, Longanesi editore).
25 giugno 2009. The Sound of Silence
"Avete sentito il suono del silenzio sull’Iran da parte del mondo arabo?”.
Così comincia un articolo di Mona Eltahawy, commentatrice di origine egiziana, sul Washington Post di oggi.
Il mondo arabo tace, ma il disagio si sente, commenta Mona. I dati demografici che caratterizzano l’Iran infatti sono comuni al mondo arabo: la maggioranza degli arabi è giovane ed è probabile che in queste settimane molti giovani arabi stiano guardando alle vicende iraniane identificandosi con questa popolazione in qualche modo reclusa da un regime che si sta facendo più duro e violento.
Molti leader arabi in questi anni hanno fondato la loro credibilità e popolarità sul fatto di essere contro l’America e contro Israele. Poco contava che poi maltrattassero la loro gente in termini di violazioni dei diritti umani e civili, che i media fossero imbavagliati, che non ci fosse libertà. Da questo punto di vista Ahmadinejad è una figura "familiare”: ha sempre difeso (a parole) la causa palestinese ed è da sempre nemico di Stati Uniti e Israele. Ma ora che le strade dell’Iran sono affollate di giovani che dicono che no, non basta essere contro Israele e l’America, tanto più che Bush non c’è più, su cosa si dovrebbe basare questa simpatia per il regime iraniano? Silenzio.
Ciò che sta accadendo in Iran, continua Mona, non riguarda né gli Stati Uniti né Israele, né la lotta tra Ahmadinejad e Moussavi. Le manifestazioni di questi giorni denunciano semplicemente il fatto che la volontà e la voce degli iraniani non è stata ascoltata. In Egitto è il "nostro dittatore laico, al potere da circa 28 anni, a non ascoltare la nostra voce”, aggiunge Mona. In Iran è un regime religioso, che regna da 30 anni nascosto dietro il suo dio. I Fratelli Musulmani, che hanno plaudito la "vittoria” di Ahmadinejad hanno di che preoccuparsi: una nuova generazione di "fratelli e sorelle” musulmani non è più disposta a barattare la propria libertà con l’antiamericanismo o il sostegno (a parole) alla causa palestinese.
L’unico "rumore” sull’accaduto arriva dalla rete. "Stanchi dell’imbarazzante silenzio del mondo arabo sull’Iran? Andate in rete”, esorta Mona. In rete i blogger equiparano la repressione in Iran a quella nei paesi arabi. In rete i giovani arabi esprimono invidia per i giovani iraniani che hanno avuto il coraggio di sfidare il regime con le loro manifestazioni. In rete i giovani arabi chiedono anche dove sia il promesso sostegno americano ai democratici.
(www.washingtonpost.com)
25 giugno 2009. Twitter in Iran
Su "PersianKiwi” vengono aggregati tutti i messaggi inviati via Twitter sulle elezioni in Iran. Twitter permette di scrivere non più di 140 caratteri e quindi il linguaggio usato è tendenzialmente quello degli sms, caratterizzato dai numeri in cifra, l’elisione delle vocali, ecc.
Persian Kiwi è il nickname dei sostenitori di Moussavi su Twitter, un’account su cui negli ultimi giorni i leader della protesta hanno scritto ora per ora tutti gli aggiornamenti da Teheran. I messaggi che seguono sono alcuni di quelli che si potevano leggere la mattina del 25 giugno.
- "Thank you ppls 4 supporting Sea of Green - pls remember always our martyrs - Allah Akbar - Allah Akbar - Allah Akbar”.
[Grazie a voi che sostenete l’Onda Verde - per favore ricordate sempre i nostri martiti - Allah è il più grande…].
- "We must go - dont know when we can get internet - they take 1 of us, they will torture and get names - now we must move fast”.
[Dobbiamo andare - non so quando potremo riaccedere a internet - hanno preso uno di noi, lo tortureranno per avere dei nomi - ora dobbiamo muoverci in fretta].
- "Everybody is under arrest & cant move - Mousavi - Karroubi even rumour Khatami is in house guard”.
[Sono tutti agli arresti e non si possono muovere - Moussavi - Karroubi, ci sono voci che anche Khatami sarebbe agli arresti domiciliari].
- "In Baharestan we saw militia with axe choping ppl like meat - blood everywhere - like butcher - Allah Akbar”.
[In piazza Baharestan abbiamo visto le milizie fare a pezzi le persone con delle asce come fossero carne - sangue dappertutto - una macelleria].
- "Reports of street fighting in Vanak Sq, Tajrish sq, Azadi Sq - now”.
[Notizie di guerriglia in piazza Vanak, in piazza Tajrish e in piazza Azadi - adesso].
- "Rumour they are tracking high use of phone lines to find internet users - must move from here”.
[Voci che stanno tracciando chi usa massicciamente le linee telefoniche per individuare chi usa internet - dobbiamo muoverci da qui ora].
- "Phone line was cut and we lost internet - getting more difficult to log into net”.
[Le linee telefoniche sono state tagliate, abbiamo perso il collegamento internet - sempre più difficoltà ad accedere alla rete]
- "All shops was closed - nowhere to go - they follow ppls with helicopters - smoke and fire is everywhere”.
[Tutti i negozi sono chiusi - nessun posto dove andare - inseguono la gente con gli elicotteri - fumo e fiamme dappertutto].
- "So many ppl arrested - young & old - they take ppl away - we lose our group”.
[Quanta gente arrestata - giovani e vecchi - portano via le persone - abbiamo perso il nostro gruppo].
- "Saw 7/8 militia beating one woman with baton on ground - she had no defense nothing - sure that she is dead”.
[Ho visto 7-8 miliziani colpire una donna a terra col bastone - non aveva niente con cui difendersi - sicuro che è morta].
- "They were waiting for us - they all have guns and riot uniforms - it was like a mouse trap - ppl being shot like animals”.
[Ci stavano aspettando - hanno tutti pistole e uniformi da combattimento - era come una trappola per topi - sparano alle persone come fossero animali].
- "Just in from Baharestan Sq - situation today is terrible - they beat the ppls like animals”.
[Appena tornato da piazza Baharestan - situazione terribile oggi - colpiscono le persone come animali].
(http://twitter.com/PersianKiwi)
29 giugno 2009. Post Scriptum
Dal 26 giugno Persian Kiwi tace.
29 giugno 2009. Ancora sui checkpoint privatizzati
Nell’edizione odierna di Haaretz, Amira Hass torna a parlare dei checkpoint privatizzati, denunciando come nei posti di blocco gestiti da una compagnia di sicurezza privata in Cisgiordania siano in corso comportamenti a dir poco discutibili.
E’ stata l’organizzazione MachsomWatch la prima a segnalare quanto sta accadendo. In particolare pare che i lavoratori palestinesi non possano attraversare il checkpoint Sha’ar Efraim, a sud di Tul Karm, se sono in possesso di: grosse bottiglie di acqua fredda, di bibite, cibo preparato in casa, caffè, tè o spezie.
Pare che il servizio di sicurezza abbia anche stabilito delle precise quantità massime per i beni permessi: 5 "pita” (il pane rotondo tradizionale), un contenitore di hummus e uno di tonno in scatola, una bottiglietta o una lattina di acqua o bibite, una o due fette di formaggio, qualche cucchiaiata di zucchero e 5-10 olive. I lavoratori inoltre non possono portare con sé utensili per cuocere, né attrezzi di lavoro.
MachsomWatch ha raccontato ad Haaretz che la scorsa domenica un operaio edile palestinese di 32 anni, residente a Tul Karm e impiegato in Hadera, è stato costretto a lasciare la propria sacca con il pranzo al checkpoint: c’erano 6 pita, 2 confezioni di formaggio cremoso, un chilo di zucchero e un’insalata.
Il tipico lavoratore palestinese in trasferta ha una giornata di lavoro di circa 12 ore se si tiene conto del viaggio e dei ritardi per i controlli. Molti lasciano l’abitazione anche alle due di notte per mettersi in fila ai checkpoint (il ritardo è motivo di licenziamento) e rientrano attorno alle cinque del pomeriggio.
La quantità di cibo concessa dalla società di sicurezza privata Modi’in Ezrahi semplicemente non soddisfa i bisogni alimentari di questi lavoratori, che tra l’altro tendono a non fare acquisti in Israele per via dei prezzi più alti. Per assurdo, al checkpoint di Qalqilyah ancora sotto controllo dell’esercito israeliano (ma per poco), non c’è alcuna di queste restrizioni.
Il Ministero della Difesa israeliano, a cui MachsomWatch si è rivolta per spiegazioni, per ora non risponde.
(www.haaretz.com)
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