Qual è la storia di Asinitas: come nasce, quali sono state le varie tappe del vostro percorso?
Marco Carsetti. Si sono incrociati principalmente due percorsi: uno portato da una socia, Cecilia Bartoli, che fa parte della federazione dei Cemea (Centri di esercitazione ai metodi dell’educazione attiva) e poi il gruppo che da anni lavorava all’interno di varie organizzazioni con rifugiati e richiedenti asilo.
Noi in quel periodo facevamo una scuola di italiano all’interno dell’associazione Medici contro la tortura e stavamo in una zona di Roma molto vicina alla stazione Tiburtina e ai Magazzini Occupati dove vivevano circa 600-700 tra i richiedenti asilo e i rifugiati provenienti principalmente dall’Eritrea, dal Darfur in Sudan, dall’Etiopia. Ricordo che a scuola, quando noi chiedevamo dove abitassero, loro rispondevano sempre: “Tiburtina”. Noi non capivamo bene che cosa intendessero, fino a quando non abbiamo scoperto questa situazione incredibile. Da quel momento in poi abbiamo cominciato a lavorare all’interno dei Magazzini, mantenendo l’attività della scuola con i Medici, ma cominciando a costruire un gruppo specifico per intervenire in quella sede, soprattutto perché, quando siamo arrivati, era prossimo lo sgombero di questo spazio.
Devo dire che la cosa che ci colpì straordinariamente era il modo in cui queste persone erano state capaci di autorganizzarsi e di portare avanti una convivenza molto funzionale. Davvero, funzionavano meglio di alcuni centri di accoglienza del Comune: la vita comunitaria rimaneva molto legata al paese di origine, con le amicizie, le famiglie allargate, la cucina del proprio paese. Avevano addirittura creato negozietti che, oltre a dare lavoro, davano da mangiare a costi molto bassi. Tant’è che molti stranieri, pur non vivendo lì, ci andavano a comprare cibo, a mangiare o a tagliarsi i capelli. Era come un villaggio composto da queste comunità, ripeto, molto funzionale. Inoltre non c’erano orari né di entrata né di uscita, quindi il ritmo sonno-veglia delle persone veniva rispettato. Nei centri di accoglienza, invece, sei costretto ad uscire alla mattina e a ritornare non prima delle 18 e quindi stai a spasso tutto il giorno.
Noi siamo rimasti molto affascinati e colpiti da questa capacità organizzativa da parte di persone appena arrivate in Italia senza conoscere la nostra lingua. Allora poi non c’erano ancora le commissioni territoriali, c’era solo quella centrale qui a Roma, con liste di attesa anche di due anni: per tutto questo periodo richiedenti asilo e rifugiati non avevano permessi di soggiorno, non potevano lavorare, non avevano un sistema né di protezione, né di accoglienza. Era una situazione molto complicata.
Quindi nel 2005 questo gruppo, che si era collaudato bene lavorando sia a livello didattico all’interno della scuola, sia a livello politico nei Magazzini, ha deciso di creare la propria associazione, portandoci dentro tutto un insieme di pratiche, di teorie, di conoscenze, di competenze, che aveva acquisito negli anni nei vari ambienti di lavoro.
Avete promosso anche un “archivio della memoria migrante”. Puoi raccontare?
Marco. Attraverso la rivista Lo Straniero diretta da Goffredo Fofi, abbiamo conosciuto l’africanista Alessandro Triulzi che aveva lavorato per oltre trent’anni nel Corno d’Africa: quando venne a sapere della situazione dei Magazzini, con la presenza elevata di persone provenienti dal Corno d’Africa, ci chiamò dicendoci che era interessato a collaborare con noi. E’ stato in quell’occasione che abbiamo cominciato a organizzare il lavoro dell’”archivio della memoria migrante”: una raccolta di storie e di testimonianze legate alla migrazione.
Per noi è un progetto molto significativo sia per i migranti che per noi italiani: raccogliamo le loro voci e i loro racconti, per indagare i contorni e le radici della condizione dell’esilio. Così si costituisce una memoria di quello che sta succedendo: è un fenomeno che riguarda migliaia e migliaia di persone, riguarda le nostre città, la nostra societ ...[continua]
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