Partiamo dalla domanda sempre fondamentale. Come si spiega l’insorgenza dell’antisemitismo di Stato proprio nel 1938, in quel momento della già non breve storia del regime fascista? La decisione persecutoria venne prima adombrata (con una negazione che l’affermava) nell’“Informazione Diplomatica” del febbraio 1938; codificata il 13 luglio nel manifesto degli scienziati: Il fascismo e la questione della razza e confermata nell’udienza concessa dal duce a Telesio Interlandi, direttore de “La Difesa della Razza” (Giorgio Almirante segretario di redazione). Venne preparata dal censimento della popolazione ebraica del 22 agosto e infine avviata dai primi decreti antiebraici del 5 e 7 settembre (eliminazione da scuole e università, revoca della cittadinanza ed espulsione degli stranieri).
L’alleanza con il III Reich o la crisi internazionale (guerre d’Etiopia e di Spagna, Anschluss, conquista nazista della Cecoslovacchia, ecc.) non sono tuttavia spiegazioni convincenti di tale progressione persecutoria, che proseguì distruggendo le capacità giuridiche in ogni ambito (proprietà, matrimoni, professioni, imprese economiche, attività artistiche, commercio). Si andò avanti dal 1938 al 1941 e, nel 1942, la legislazione venne ripresa e perfezionata dal Codice civile.
I. Non fu però un percorso a ritroso sulla via dell’uguaglianza giuridica conquistata con lo Stato liberale; non fu il ritorno alle interdizioni israelitiche esistenti negli antichi Stati italiani denunciate da Carlo Cattaneo -e particolarmente rigide nello Stato della Chiesa (come nell’estate 1938 ricordò un compiaciuto padre Barbera su “La Civiltà Cattolica”); non fu la regressione alle discriminazioni tardomedievali e di Antico Regime, accettate o benedette dalle Chiese cristiane.
(E tuttavia, come si legge in Pagine ebraiche di Arnaldo Momigliano, la secolare tradizione antigiudaica cristiana sicuramente contribuì, ancora nel 1938, a consolidare la conformistica indifferenza di molti italiani verso le sorti dei connazionali ebrei).
Più probabilmente, la persecuzione costituì il culmine dell’impresa stessa del regime: l’ultimo tentativo di pervenire, su base razzista, a una forza totalitaria fino ad allora mai raggiunta a causa del fallimento del corporativismo, del dualismo di potere con la monarchia, delle imperfezioni della macchina statale. Il progetto totalitario doveva condurre alla distruzione di ogni residua eredità dello Stato di diritto, che aveva rappresentato la condizione e il contesto delle libertà statutarie del Regno, anche per gli ebrei. La storia dell’emancipazione giuridica e delle conquiste delle prerogative della cittadinanza, avviata nel regno di Savoia nel 1848, terminò quindi in Italia nel 1938.
II. Come ha scritto David Sorkin, la storia della persecuzione totalitaria in Europa presuppone perciò sia la storia delle conquiste che quella delle perdite delle libertà e dell’emancipazione giuridica. Nell’Europa occidentale le precedenti e parziali garanzie di residenza, proprietà e libertà di fede religiosa erano state completate dalle libertà politiche, mentre nell’Europa centrale, ai diritti civili e politici si pervenne in modo più tortuoso, attraverso l’allargamento dell’autonomia delle comunità ebraiche e l’inclusione di esse nelle corporazioni cittadine o statali (Stadt Burgerschaft o Staat Burgerschaft). Nell’Europa orientale, infine, le franchigie mercantili, garantite un tempo dalla Corona di Ucraina e dal Dominio Lituano-Polacco, vennero pressoché azzerate dopo la conquista zarista tra 1772 e 1795. In sostanza, dalla fine del Settecento si affermarono due modelli diversi di cittadinanza veramente indipendenti dalla nascita e dalla religione: le riforme di Giuseppe II nell’Impero asburgico (un’emancipazione incrementale condizionata all’utilità dello Stato) e i decreti rivoluzionari di piena uguaglianza giuridica decisi dall’Assemblea costituente francese tra 1790 e 1791.
III. La connessione tra distruzione totalitaria della democrazia e persecuzione la rivelò inconsapevolmente Mussolini stesso. Il 13 novembre 1934 egli concesse udienza al diplomatico Nahum Goldmann, rappresentante della Jewish Agency promotrice dell’insediamento ebraico in Palestina. Mussolini, in funzione antibritannica, all’insediamento non era ostile, ma domandò: “Perché gli ebrei sono stati sempre e dovunque sostenitori accaniti della democrazia?”. E Goldmann: “La democrazia ha portato agli ebrei l’emancipazione, i diritti civili e politici; dunque, essi sono naturalmente grati alla democrazia”. In realtà, in Italia il consenso al regime fu maggioritario anche tra i poco più che 40.000 italiani ebrei.
Ma ciò che possiamo definire una “democrazia” diversa dagli ordinamenti liberali dell’Ottocento, in Europa si affermò solo dopo la guerra 1914-1918. Con la distruzione dei tre Grandi Imperi asburgico, germanico e zarista, Stati costituzionali di diritto definiti da Hans Kelsen e Hugo Preuss, o ispirati ai loro modelli, s’imposero a Weimar, Vienna, Praga, Varsavia, oltre che in Europa occidentale, assicurando il primato del potere legislativo, l’autodeterminazione nazionale, i diritti delle minoranze. Quasi simultaneamente, però, si mise in moto un processo regressivo che condusse a trasformazioni autoritarie in Ungheria tra 1920 e’21, in Italia tra 1922 e 1925, in Portogallo nel 1926, in Polonia tra 1926 e ’29, nel Regno di Jugoslavia tra 1929 e ’34, in Germania nel 1933 e nel 1934 in Austria. Agli arretramenti progressivi della democrazia si affiancò subito la riduzione, sino alla perdita, dei diritti conquistati dagli ebrei: in Polonia revisione dell’accesso alla cittadinanza, limitazioni delle proprietà, proibizione di molte professioni e degli studi universitari; in Ungheria numero chiuso all’Università e ripetuti provvedimenti restrittivi; in Boemia persecuzioni e confisca dei beni; discriminazioni economiche, lavorative e revoca della cittadinanza in Romania; leggi di Norimberga in Germania.
Separare la storia della persecuzione dei diritti e delle vite degli ebrei (preceduta quasi ovunque da quella di operai, contadini e militanti socialisti e comunisti) dalla crisi della democrazia non è dunque possibile, perché -come scrisse Silvio Trentin già nel 1935- tale crisi “mette prima di tutto in discussione il valore ineguagliabile della persona umana, entità primaria e universale che è la ragion d’essere della democrazia”.
IV. In Italia, l’antisemitismo di Stato fu senz’altro l’estremo progetto di rilanciare un’ambizione totalitaria che era stata limitata e bloccata da quella che Guido Melis definisce “la macchina imperfetta” dello Stato fascista. Il regime non era riuscito a plasmare la società né a costruire l’uomo nuovo; anzi, dalla società e dal cosiddetto “carattere” nazionale (che Mussolini disprezzava) il regime era stato plasmato, e ridotto in sistema di burocrazie e gruppi di potere rivali che solo il Capo del fascismo sapeva mediare, a suo esclusivo profitto.
La prospettiva della guerra, prevista per il 1942, esigeva però di superare l’impreparazione evidente con un nuovo impeto totalitario, da corroborare scatenando una guerra preliminare contro un presunto nemico interno, dissimulato, collegato all’ebraismo mondiale. La cospirazione permanente degli ebrei divenne la paranoia di regime, ma la paranoia non eliminò le contraddizioni fallimentari accumulate dal regime stesso e dallo Stato.
Anche scienze e diritto si dimostrarono utili alla decisione politica. Le leggi antiebraiche furono infatti preparate, anzi precedute, dall’autonoma evoluzione delle tendenze disciplinari di biologia, demografia, eugenetica e medicina, che avevano da tempo contribuito a definire il pensiero razziale e, innanzitutto nelle colonie, le pratiche del “governo” autoritario delle popolazioni native, nonché dell’igiene sociale e del disciplinamento demografico degli italiani stessi. E l’alta cultura giuridica ridefinì le categorie di stirpe e di razza, per modellare la dottrina di un potere capace -scrisse Alfredo Rocco- “di organizzare e vincolare popolazione e masse allo Stato - espressione dell’unità non solo sociale, bensì e altresì etnica, e legata da vincoli di razza, della Nazione”.
V.
Il Giorno della Memoria 2025 non ci consente di ribadire semplicemente le conclusioni acquisite dagli studi. Viviamo un presente che oltraggia e rovescia impudentemente interpretazioni che ci sembrano, e sono, incontestabili come verità storiche. L’affermazione di antidemocrazie autoritarie e di nazional-populismi ha messo a rischio le fragili fondamenta delle istituzioni europee e, quindi, il senso stesso del Giorno della Memoria (peraltro in Italia istituito da una legge del luglio 2000 che neppure nomina il fascismo). Così l’imperativo del ricordo, già infiacchito dall’ipertrofia digitale delle memorie, da cerimonie e musealizzazioni troppo rituali, da tendenze a spettacolarizzare mescolando documenti e finzione, registra fenomeni di indifferenza, quando non di rigetto, soprattutto tra le generazioni più giovani.
Nel 1926 Thomas Mann scrisse: “i professori di storia non amano gli eventi in quanto essi avvengono, ma in quanto sono avvenuti; odiano l’attuale sconvolgimento perché lo sentono come qualcosa di estraneo a ogni legge, di sconnesso e d’impudente -in una parola, come qualcosa di ‘antistorico’, mentre il loro cuore rimane devoto alla pia, coerente storicità del passato […] che conviene ai nervi di un professore di storia assai più dell’impudenza del presente”. Anche noi, con i nervi scossi e la mente paralizzata da enormità sino a ieri impensabili, contempliamo un mondo che abbiamo smesso di capire, mentre lo stesso Occidente smentisce i valori e i principii della democrazia costituzionale, il rifiuto dell’essenza del fascismo (il nazionalismo), i diritti civili e sociali e il valore universale della persona umana. Le convinzioni (mai più Auschwitz! mai più Hiroshima!) che ci avevano consentito di ripensare e ricostruire l’Europa dopo la catastrofe totalitaria e la Shoah, ora vacillano: l’uso dell’atomica viene minacciato nel conflitto tra Russia e Ucraina, e i crimini contro l’umanità ricompaiono nel pogrom islamista del 7 ottobre 2023, ma anche nella successiva reazione militare israeliana.
Siamo costretti a pensare ciò che prima ritenevamo impensabile: alla presidenza degli Stati Uniti ascende un magnate che quattro anni fa non riconobbe la sconfitta elettorale e scatenò, con l’uso politico della menzogna e delle false notizie, l’invasione di migliaia di squadristi armati nel Campidoglio di Washington. Concede loro la grazia, mentre il suo ultramiliardario consigliere speciale “per l’efficienza del governo” invita i tedeschi a votare i neonazisti Afd, in quella Germania per la cui liberazione, ottanta anni fa, morirono anche decine di migliaia di giovani americani.
Il capo di governo di Israele, lo Stato nato dal risarcimento della Shoah, non può recarsi ad Auschwitz per commemorare sei milioni di correligionari inghiottiti dai forni nazisti, perché inseguito da un mandato della Corte Penale Internazionale per crimini contro l’umanità. E il suo governo nazionalista religioso, annientando ogni tradizione del sionismo laico e democratico, con la “legge fondamentale” imposta alla Knesset nel 2018 ha avviato la mutazione della democrazia israeliana in una etnocrazia, fondata sul principio del cosiddetto “Stato (esclusivo) degli ebrei”; poi, nel 2022, ha provato a minare l’autonomia della magistratura con una riforma non dissimile da quelle avviate dai sistemi sovranisti e nazionalisti europei in Ungheria, nella Polonia di Morawiecky, in Cechia.
Già trent’anni fa, Amos Oz aveva denunciato “the Hamas-Likud connection”, scrivendo che i nazionalisti israeliani e gli islamisti palestinesi convergevano ormai sullo stesso obiettivo: nessun compromesso tra i due popoli e un unico Stato in Palestina, fondato sull’annientamento dell’altro. Quindi, forse ha ragione Liliana Segre quando obietta, a chi accusa Israele di genocidio, che a Gaza non sussistono i caratteri tipici del genocidio (cioè, la pianificazione dell’eliminazione totale e l’assenza di un rapporto funzionale con una guerra, come fu per gli armeni nel ’14-’18 e per ebrei, sinti, rom nel 1939 -’45).
Ma la questione non è giuridica, tanto meno lessicale. Lo ha scritto Stefano Levi Della Torre: “dai corpi dei bambini consunti dalla fame nella gabbia della Striscia riemergono anche le nostre (di noi ebrei) memorie, e non c’è tabù intorno alla Shoah e all’antisemitismo che ce ne ripari”. D’altro canto, se le atrocità di Tsahal hanno rianimato l’antico pregiudizio antisemita intrecciandolo con il giudizio politico sulla guerra attuale della sinistra unilateralmente filopalestinese (“from the river to the sea, Palestine will be free”), molti responsabili di comunità ebraiche europee si accostano a destre nazionaliste o post-fasciste che sono peraltro di sicura tradizione antiebraica. Insomma: nessun paradosso ci viene risparmiato.
Il punto cruciale è infine questo: la memoria della Shoah non può essere patrimonio esclusivo di uno Stato o di uno schieramento. Dopo la catastrofe del 1939-’45, fu inevitabile riconoscere che gli ebrei nel mondo e nello Stato di Israele fossero in credito nei confronti dell’umanità, per quanto avevano sofferto: la persecuzione dei diritti e delle vite approdata a un irreparabile genocidio. Sul piano storico come su quello etico, tuttavia, la responsabilità e la memoria della Shoah concernono tutti, non escluse le vittime del genocidio. Primo Levi lo seppe e lo sostenne, e fu tale consapevolezza a mutarsi in lui, con gli anni, in un’ossessione disperante dell’impensabile, quella che oggi consuma anche noi.
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