Nel tuo ultimo libro, scritto insieme a David Ragazzoni, ricostruisci le origini e il percorso compiuto in Italia dall’idea della "Seconda Repubblica”, un’idea per lungo tempo minoritaria e poi, via via, affermatasi sempre più…
Sì, nel libro che ho scritto con Ragazzoni dimostriamo che l’espressione "Seconda Repubblica”, che secondo le nostre ricerche appare per la prima volta nel ’58 con la caduta del monocolore democristiano, è una categoria politica vera e propria che contiene già tutti gli elementi che poi caratterizzeranno la Seconda Repubblica alla sua nascita. E a parlarne sono alla fine degli anni Cinquanta Randolfo Pacciardi, repubblicano cacciato dal partito, Giorgio Pisanò, fascista, e Baget Bozzo del partito democristiano, il quale parla di democrazia plebiscitaria e del bisogno di un leader della provvidenza. Quando Renzi dice che è da settant’anni che si aspetta la riforma in qualche modo ha ragione perché già nella Costituente c’era un gruppo di ex monarchici come Lucifero, o comunque antidemocratici come i rappresentanti dell’Uomo qualunque che pensavano che la democrazia parlamentare fosse una iattura per l’Italia, capace di produrre solo un pessimo governo, litigi, compromessi e governi di coalizione, ovvero tutto quello che secondo Hans Kelsen denotava la democrazia parlamentare moderna. Per loro il bicameralismo e la repubblica assemblearista, come la chiamavano, era solo il frutto della reazione contro il fascismo. Il fascismo si fondava sulla centralità dell’esecutivo: la repubblica, per reazione si doveva fondare sulla centralità del parlamento, ma non andava bene.
Quindi quest’idea che ci voglia l’uomo della provvidenza non è per niente una banalità, è conseguente a una concezione della politica profondamente critica del liberismo individualista e soprattutto timorosa della modernità, ovvero della visione politica che vede nella orizzontalità dello Stato moderno (di matrice Hobbesiana) ereditato dalla liberaldemocratica un grande problema.
La caduta del monocolore democristiano, con le dimissioni di De Gasperi nel ’58, coincide con l’avvento in Francia di De Gaulle, che in quattro anni con quattro plebisciti vara la Quinta repubblica, cambiando la costituzione in senso presidenzialista da parlamentarista che era. Questi due elementi insieme, caduta del monocolore e modello gollista, si sposano, e dentro la Dc, sommessamente prima (in una piccola minoranza), poi sempre di più (soprattutto negli anni Sessanta, a fronte di una società civile che ribolle di movimenti, sembra essere anarchica, disobbediente, problematica) si fa strada l’idea della necessità di un rafforzamento dell’esecutivo; allora, quella idea gollista sembra poter essere la soluzione a tutti i problemi di instabilità, come loro la chiamano. È un’idea che si fa avanti, sempre di più. Basta pensare a Craxi.
Da quella tradizione viene Barbera, viene Ceccanti, vengono tutti coloro che oggi vogliono mettere fine finalmente alla repubblica antifascista e fare una repubblica realmente postfascista, che non abbia bisogno di essere così orizzontalista o, come la chiamano, assemblearista. A loro avviso ci si può permettere, dopo tanto tempo, di avere una visione verticistica senza il timore di cadute fasciste.
Fino ai due partiti più grandi, la Dc e il Pci?
Ci sono alcuni momenti decisivi, noi l’abbiamo riscontrato analizzando i documenti: prima la morte di Moro, che era un grande parlamentarista orizzontalista (ammiratore di Kelsen), poi quella di Berlinguer che, benché non disconoscesse la possibilità di un monocameralismo (come tutti i giacobini d’origine, del resto) era profondamente antipresidenzialista e contrario alla centralità dell’esecutivo e convinto proporzionalista (proprio in quando monocameralista). La scomparsa di questi due grandi protagonisti della scena politica ha liberato coloro che non avevano fin lì avuto spazio o legittimità, e messo in moto all’interno dei due rispettivi partiti uno sviluppo libero, senza autocensure, di questa visione presidenzialista ...[continua]
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