A un certo punto non è stato più possibile tenerla a casa, la convivenza era diventata una roba impossibile. Sono stati quattro anni molto difficili, difficilissimi. Innanzitutto la mamma non ha mai accettato di venire a vivere con noi, gliel’abbiamo imposto. Non l’ha accettato, perché secondo lei poteva star da sola, quindi faceva dei dispetti: lei non mangiava quasi mai con noi, si metteva a tavola e ci guardava, quasi con disprezzo, ci faceva sentire a disagio. Poi non le andava bene niente, il cavolfiore no, i carciofi no, e poi, finito di mangiare, quando avevi sparecchiato, apriva il frigo e prendeva quello che capitava.... Dialogo niente, stava tutto il tempo seduta sul divano, arrabbiata.
A un certo punto aveva cominciato a frequentare un centro diurno, la venivano a prendere al mattino alle otto e mezzo e me la riportavano alle cinque, cinque e un quarto. Ma non era un centro specializzato e infatti lì dopo un po’ hanno iniziato a dirmi: “Guardi, la mamma comincia a dare un po’ di segnali...”, poi si è aggiunta la dottoressa: “Guardi che forse è meglio mettere la mamma da qualche parte”. Mio marito a quel punto già mi aveva detto: “O tua mamma o noi, vedi tu”. Non ho avuto scelta.
Diciamo che forse, se mio marito non forzava, chi lo sa. L’incontinenza è coincisa con il ricovero, quindi non so, forse questa decisione sarebbe venuta comunque. Anche perché parliamo di una malattia che psicologicamente destabilizza, non a caso si dice che uno dei rischi è che l’intero nucleo familiare in qualche modo si ammali. E poi, anche fisicamente, come fai a gestire una persona che non puoi perdere di vista un secondo?
Insomma, si era creata una situazione di tale disagio che ho dovuto fare una scelta tra mia mamma e la mia famiglia. Diciamo che la mia famiglia è ancora il mio futuro, quel poco che mi può rimanere, mentre la mamma è un po’ il mio vissuto. Ho fatto questa scelta, e dopo una settimana che era stata ricoverata l’hanno spostata nel reparto protetto. Cioè me la sono trovata in un reparto con le porte chiuse. Per me è stato trauma, tanto più che soffro di claustrofobia. La diagnosi era Alzheimer, nessuno me l’aveva mai detto.
Ecco, la prima cosa che mi viene da dire è che ancora oggi manca, da parte dei medici, l’informazione, l’attenzione a segnalare esattamente la malattia. Non so se non lo dicono per non spaventare, se te lo dicono in modo troppo blando, perché a me la dottoressa in effetti aveva detto: “Guardi che forse la mamma è meglio che sia seguita in una struttura”, ma senza nominare la malattia.
E dire che prima di portarla ai Cedri, le avevo fatto fare la visita dal geriatra, al San Gerardo, la visita oculistica, cioè un vero e proprio check up. Ho ancora la diagnosi del Reparto Anziani di Monza, ma da nessuna parte c’è scritto Alzheimer. Ora, quando io ho individuato la Villa dei Cedri, ho fatto una scelta di vita per la mamma e per la mia famiglia, non una scelta dettata dalla malattia. Sono due scelte ben diverse. Anche per questo è stato un dramma. Devo dire che sono stata aiutata tantissimo dal Caffè Alzheimer dei Cedri. La dottoressa Manzoni ha capito subito cosa mi stava succedendo e mi ha invitato a questi incontri. Il fatto di partecipare, di sentire, di vedere cosa succedeva agli altri, di realizzare cos’è veramente questa malattia è stato di aiuto.
Anche mio papà è morto di Alzheimer, aveva 80 anni. Anche lì non si era capito: “La memoria, la demenza, sa, è l’età...”, te la raccontano così. Eppure io mi ricordo che quell’estate nella casa in montagna ogni tanto partiva dopodiché lo vedevo nel prato col bastone perché vedeva delle cose… Poi, in questi anni sono andata a documentarmi e ho scoperto che questo è un sintomo tipico dell’Alzheimer: il fatto di vedere come dei topi. Insomma vedeva i topi, ma di fatto li vedeva solo lui, non c’erano. Un’altra cosa: se era abituato a vedere una cosa qui e tu inavvertitamente la spostavi, era il panico totale. Nel novembre di quell’anno una mattina si è alzato, si è seduto sulla poltrona e non si è più mosso: era bloccato, rigido. La dottoressa ha detto: “Questo è un Alzheimer all’ultimo stadio, può durare un giorno, un mese, un anno…”, è durato 10 giorni. Ma anche nel suo caso mia madre era già da un po’ che si lamentava : “Ma com’è possibile che tuo padre non capisca più niente?”. Sbagliava a fare la spesa… Io poi lo ma ...[continua]
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