Da tempo, complice anche la crisi, le critiche al Pil come misura di ricchezza e benessere si moltiplicano. Possiamo spiegare?
Il Pil, Prodotto interno lordo, è il risultato di uno specifico ramo della statistica, la contabilità nazionale. I contabili nazionali, a differenza degli altri statistici che vanno a raccogliere i dati sul campo, fanno un lavoro a tavolino, cioè mettono insieme tutte le serie di produzione (agricola, industriale, terziario destinato alla vendita, pubblica amministrazione) da cui ricavano una cifra complessiva che esprime la produzione di ricchezza dell’intero paese in un anno o in un trimestre.
Questo tipo di calcolo è stato introdotto dopo la crisi del ’29 e man mano è diventato anche quello che non dovrebbe essere, cioè non soltanto un indicatore della produzione, come dice la parola stessa, ma un indicatore di benessere.
Il Pil presenta anche dei limiti intrinseci, alcuni bizzarri, come il fatto che il verificarsi di una catastrofe lo fa crescere…
Bisogna tener conto di che cosa c’è e cosa non c’è nel Pil. Cominciamo a dire che, a differenza di quanto sostengono certi nostri politici, il Pil, essendo un calcolo fatto a tavolino, ingloba anche una stima attendibile dell’economia sommersa. Che cosa non include? Non include l’economia criminale, della droga e della prostituzione. E non include il lavoro domestico. Tanto che c’è il famoso "paradosso della cuoca”, per cui se io sposo la mia cuoca faccio diminuire il Pil, perché finché la pago questo rientra nella quota contabilizzata, quando non la pago più…
Ma in generale sia il lavoro di cura non retribuito, sia il lavoro domestico restano invisibili al Pil. D’altra parte è anche molto difficile elaborare questi calcoli, perché cosa consideriamo? Qual è il confine tra il lavoro domestico e la normale partecipazione alle attività di casa? Se quello della donna che sta a casa è lavoro da conteggiarsi, che cos’è l’attività che compie suo marito quando partecipa alle mansioni domestiche?
E’ anche per questa obiettiva difficoltà che molti statistici, pur riconoscendo la fondatezza delle istanze di riforma, metodologicamente hanno fatto molta resistenza a portarle avanti.
Il secondo punto è che il calcolo del Pil non distingue tra le spese buone e quelle meno buone. Cioè che io spenda per un’attività sportiva oppure per mettere delle porte blindate alla mia casa perché mi sento insicuro, per il Pil è assolutamente la stessa cosa. Per questo anche una catastrofe può far crescere il Pil, perché aumenta il bisogno di produzione.
Terzo punto: perché si chiama "lordo” il prodotto interno? Perché è al lordo degli ammortamenti. Quando noi facciamo il calcolo di che cosa abbiamo speso in un anno, dobbiamo anche tener conto del fatto che la nostra auto, il nostro computer, sono invecchiati: abbiamo consumato una frazione del nostro capitale. Invece il Pil non ne tiene conto, e soprattutto non calcola il depauperamento dei beni ambientali.
Soprattutto nei paesi in via di sviluppo, è frequente che il Pil venga realizzato con la distruzione delle foreste o con lo svuotamento delle risorse ittiche, quindi di fatto sottraendo ricchezza ai figli. Ecco, tutto questo non viene considerato né conteggiato.
Un ulteriore limite del Pil è che funzionava bene quando doveva misurare la produzione di automobili o di tubi d’acciaio, molto meno bene coi servizi. In teoria, se noi ci scambiamo poesie a pagamento attraverso Internet, questo aumenta il Pil. Ma tutti i servizi resi gratuitamente non vengono conteggiati. Pensiamo al web: l’enorme quantità di cose che la gente fa solo per il gusto di farle, a cominciare dai blog o dal software libero, non è assolutamente misurata dal Pil. Eppure c’è sicuramente una differenza di "ricchezza” tra un paese che ha questo tessuto di volontariato sotto varie forme e il paese che non ce l’ha.
Infine, il Pil calcola male la produzione della ...[continua]
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