A chi fa di mestiere la "cooperante” in giro per il mondo, le domande che si pongono sono un po’ sempre le stesse: chi te lo fa fare, ma i soldi delle donazioni arrivano davvero? e così via. E poi un’obiezione quasi rituale: perché andare lontano, quando c’è tanto da fare anche qui?
In effetti questa domanda me la sento fare spesso. Uno dei motivi per andare lontano è la scala dei bisogni, l’urgenza. Voglio dire che, per esempio, in Italia non si muore di fame. Questo è un fatto. La mia prima missione è stata in Mauritania, in un programma contro la malnutrizione infantile. È stato forse il programma più bello, nel senso di più appagante, perché lì vedi realmente gli effetti di quello che fai: vai in un posto dove ci sono dei bambini che rischiano di morire, metti in piedi un programma e dopo qualche mese quei bambini mangiano e stanno meglio.
Per quanto riguarda, invece, i progetti di sviluppo, lavorando in Afghanistan, Yemen e Mozambico, paesi arretrati dal punto di vista educativo, si è rafforzata in me la convinzione che la capacità di un paese di farcela coi propri mezzi dipende molto dall’educazione e dalla formazione. E certi paesi hanno più bisogni di altri in questo campo.
Certo serve aiuto anche qui. Tempo fa, cercando informazioni su un gruppo di afghani a Roma, ho scoperto che stavano attenti a non farsi registrare in Italia, perché non vogliono restare nel nostro paese, dove non vedono prospettive. Quindi è sensato lavorare in Italia. Ma lo è sempre stato. Io ho cominciato come infermiera volontaria, la cosiddetta crocerossina, sai, con il velo e tutto quanto. È stato un bel bagno di realtà. Fra infermieri e portantini c’era chi ti guardava storto, pensando che volessi rubargli il posto o ti sentissi migliore di lui perché lavoravi gratis, sfoggiando la tua divisa retrò. Se chiedevo di chiamare una "sorella”, cioè un’altra crocerossina, qualcuno rispondeva: "Aho, ‘a sorella de chi??”… Uno dei servizi che facevano le sorelle era a via Casilina 900, un’aggregazione spontanea di nomadi e di emigrati da Afragola, trecento persone con un’unica fossa diciamo biologica, una sola fontana di acqua, fredda ovviamente, roulotte e baracche di lamiere. Quando ci sono andata la prima volta avevo ventotto anni; fino ad allora ero rimasta piuttosto confinata tra Parioli e centro, legata a un certo tipo di vita, e a un tratto mi sono resa conto che non conoscevo la mia città. Al primo impatto con quel posto affascinante e spaventoso ho avuto paura, ma davvero: sembrava di stare in un film di Fellini, con personaggi come la Sisacchiona, o Romolo, il ladro senza una mano… Poi mi sono abituata, ho cominciato sentirmi a casa e ho imparato tante cose.
Forse si pensa di essere maggiormente d’aiuto andando lontano anche perché qui ci sono organizzazioni umanitarie di tutti i tipi; in Italia c’è una grande tradizione di assistenza. E poi c’è il lato egoistico: occuparsi di chi ti è vicino è meno pittoresco, meno affascinante, ed è più duro perché è la tua realtà e quindi devi fare un po’ i conti con te stesso.
Nel corso delle varie missioni hai avuto la possibilità di conoscere dei paesi in un modo che resta precluso al semplice turista. È curioso come sia in declino la figura del viaggiatore puro, per capirsi, alla Chatwin, alla Karen Blixen, che andava in Africa per ragioni private, emotive, estetiche. Mentre oggi questa possibilità avventurosa si realizza così spesso sotto l’egida di un’aspirazione benefica, utile, comunque di qualcosa che non fai solo per te.
Sembrerà un controsenso, ma io non amo viaggiare. Però mi ha sempre affascinata la possibilità di entrare nella vita di un paese, cosa che non fai con un viaggio turistico di quindici giorni, e tantomeno con l’avventura estrema. Questo lavoro ti dà l’opportunità di entrare nella vita di un popolo, a contatto coi bisogni essenziali, le strutture g ...[continua]
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