Ce la faremo, insieme
israele-palestina

Una Città n° 306 / 2024 dicembre 2024-gennaio 2025
Intervista a Elisheva Baumgarten
Realizzata da Barbara Bertoncin, Bettina Foa
CE LA FAREMO, INSIEME
La nascita a New York in una famiglia religiosa, il trasferimento in Canada, e a 15 anni in Israele, dove finalmente si è uguale agli altri ragazzini; la passione per la storia e per la tradizione ebraica e al contempo l’impegno per un convivenza attraverso tanti progetti per i giovani palestinesi e con le donne; l’orrore per il 7 ottobre, ma anche per la guerra che ne è seguita, la speranza che un giorno si ritornerà a vivere assieme, in pace. Intervista a Elisheva Baumgarten.
Elisheva Baumgarten studia la storia sociale e religiosa degli ebrei nell’Europa settentrionale medievale e insegna Storia medievale all’Università ebraica di Gerusalemme. La sua ricerca si concentra sulla storia sociale delle comunità ebraiche che vivevano nei centri urbani dell’Europa medievale, con particolare attenzione ai contatti quotidiani tra ebrei e cristiani. Il suo lavoro mira a includere coloro che non hanno lasciato traccia nelle fonti giunte fino a noi, con un interesse particolare per le donne. È impegnata in varie associazioni e organizzazioni.
Puoi raccontarci la tua storia?
Sono nata a New York in una famiglia religiosa. Gli antenati dei miei venivano dall’Europa, si erano trasferiti negli Usa prima della seconda guerra mondiale. Mia nonna era nata a New York in quella che era la tipica famiglia ebraica newyorchese originaria dell’Europa orientale.
Noi ci siamo poi trasferiti in Canada, dove siamo rimasti per undici anni. Vivevamo in una piccola comunità rispettosa delle tradizioni; la scuola che frequentavo era anch’essa ortodossa, ma la maggior parte dei ragazzi invece non lo era. Con gli occhi di oggi credo sia stata una buona scuola di tolleranza e di rispetto per i tanti modi di essere ebreo.
Quando abbiamo fatto la nostra “aliah” io avevo 15 anni. Gerusalemme mi è subito piaciuta: c’eravamo già stati per un periodo durante l’anno sabbatico di mio padre e ci avevo trovato tutto quello che non avevo in Canada. C’erano così tanti ragazzini con cui potevo fare amicizia. In Canada, a ogni compleanno dovevo portarmi il cibo da casa, perché non potevo mai mangiare la torta che c’era. A Gerusalemme potevo fare tutto! Quindi mi sono immediatamente innamorata di Israele. C’è anche da dire che qui i bambini sono più liberi, più indipendenti. Esistono un sacco di iniziative pensate per loro. Questo mi piace molto.
A 15 anni ci siamo trasferiti definitivamente a Gerusalemme. La preside della nostra scuola era Alice Shalvi, una figura di spicco del femminismo israeliano. Credo che lei abbia molto contribuito alla mia formazione. Era una scuola femminile e l’idea con cui siamo state educate era che le donne possono fare tutto.
Poi ho fatto il servizio militare e sono stata mandata a Sderot, al Sud, in una delle zone attaccate il 7 ottobre, ma già soggetta a bombardamenti nel corso degli ultimi vent’anni. Mi sono arruolata il giorno in cui è scoppiata la prima intifada, nel dicembre del 1987. Durante l’addestramento eravamo soliti andare a Gaza, a fare delle escursioni nelle colline tra Sderot e Gaza. Il confine era aperto; succedeva quarant’anni fa, oggi sembra incredibile...
Durante il servizio militare a Sderot ho lavorato con persone che non avevo mai frequentato, tra cui molti israeliani di prima generazione e ebrei del Nord Africa. Il nostro compito era quello di lavorare nelle scuole, soprattutto elementari. Sono stati due anni e mezzo molto soddisfacenti; mi piaceva quello che facevo; non volevo neanche più andare all’università; mi sarebbe piaciuto insegnare ai ragazzini per il resto della mia vita. Però poi ho pensato che dovevo studiare per fare un buon lavoro. Uno di questi ragazzini a cui insegnavo l’inglese è diventato il primo pilota di Sderot. Oggi ha 46 anni.
Poi ho iniziato l’università e mi sono laureata in Studi umanistici alla Hebrew University. Ho studiato anche Storia ebraica; questa combinazione mi piaceva molto. Alla facoltà di Storia, la cosa sconvolgente era la carenza di donne. Ancora nel 1990 su trenta membri della facoltà solo una era una donna. Ho poi preso la mia laurea di primo e secondo livello, ho fatto un dottorato e mi sono specializzata in storia medievale. Ho studiato gli ebrei aschenaziti in Germania e Francia nel Medioevo. All’epoca tutti studiavano i rabbini e le loro vicende. Io cominciai a chiedere: “E le donne dov’erano? E i bambini?”, perché erano le questioni che mi interessano; credo fosse dovuto a una sorta di spirito femminista che mi animava.
Poi sono stata un paio d’anni negli Stati Uniti, a Philadelphia, per il mio PhD; quando sono tornata in Israele ho trovato lavoro all’Università Bar Ilan, che finanziava un programma di studi di genere; io mi occupavo di storia, di tutta la storia, come diciamo da noi: dalla Bibbia al Palmach; in inglese si dice “from Plato to Nato”, dalla storia antica a quella moderna. Uno dei miei corsi preferiti era “da Maria a Madonna”.
Questo mi permetteva di insegnare molte cose diverse. Mi occupavo anche specificamente di storia ebraica. Ci sono stata per undici anni, poi mi sono spostata alla Hebrew University. Anche qui mi occupo di storia e di storia ebraica, che corrisponde poi al modo in cui vedo il mondo: gli ebrei non sono mai vissuti da soli, ma sempre in mezzo agli altri.
Come hai visto cambiare la situazione in questi anni, in particolare rispetto ai rapporti con i palestinesi?
Nel 1999 sono andata a Philadelphia e sono tornata in Israele nel 2001, proprio in concomitanza con lo scoppio della seconda Intifada, c’erano gli attentati ai bus. Sono atterrata il 9 novembre e nelle settimane successive sono accaduti episodi terribili; era un bruttissimo periodo. Ma già quando ero tornata a trovare i miei mentre studiavo negli Usa ricordo di essermi trovata a pensare: “Non vedo più palestinesi nelle strade”. Crescendo in Israele in realtà c’era una consuetudine di incontri quotidiani con i palestinesi. Dopo la Seconda intifada venne costruito il muro e alla fine abbiamo smesso di incontrare i palestinesi.
A Bar Ilan ci sono molti studenti arabo-israeliani e il programma di studi di genere vede sempre la partecipazione di una quota di studenti palestinesi con cittadinanza israeliana. Sono previste borse di studio. Quindi è una sorta di microcosmo della società israeliana con tutte le tensioni del caso.
Per molti anni ho considerato che fossero le battaglie femministe il mio principale impegno politico. Anche se si dice che siamo avanti, in realtà a me sembra che ci sia ancora tanta strada da fare. Le donne che vivono in Israele non sono in una situazione felice. E la guerra ha peggiorato le cose. Guardate al nostro governo, tutto così maschile e maschilista e l’arrivo di Trump non farà che peggiorare le cose. Gli anni Novanta sono stati un periodo migliore per i diritti delle donne. Da allora il mondo è cambiato e non in meglio. Per questo considero ancora fondamentale l’attivismo femminista sia in ambito accademico che fuori.
Oggi il mio impegno si svolge prevalentemente all’università. Oltre all’attività di ricerca dirigo la Jack, Joseph and Morton Mandel School for Advanced Studies in the Humanities. Ospitiamo circa duecento persone con Phd, Postdoc, docenti. Dall’edificio, che si trova sul monte Scopus, si gode di una vista panoramica sulla città antica e sulle zone circostanti; si può persino vedere il Mar Morto da un lato e Ramallah dall’altro; si vedono i villaggi palestinesi e il muro che attraversa Gerusalemme. I fondatori, proprio guardando dalla finestra, hanno detto: “Non possiamo andare avanti così, dobbiamo fare qualcosa”. E così è nato il primo programma dedicato ai ragazzi palestinesi delle scuole superiori del quartiere accanto all’università, che vengono qui una volta ogni due settimane. Si parla in ebraico e in inglese, e si chiama progetto del buon vicinato. Questi studenti nelle loro scuole seguono il curriculum giordano, che include gli esami chiamati Tawjihi o “Tao G”, che sono gli esami di maturità giordani. Qui all’Università ebraica abbiamo anche un programma per insegnare l’ebraico; è iniziato con cinquanta persone e oggi abbiamo più richieste di quelle che possono essere accettate; siamo arrivati a quattrocento iscrizioni all’anno. Alla guida c’è una donna, una professoressa che si chiama Mona Khoury, un’araba israeliana di Haifa. È un programma che dura un anno in cui si insegna l’ebraico, l’inglese e a esercitare il pensiero critico. C’è uno staff molto dedito ed è frequentato da tanti ragazzi di Gerusalemme Est.
Quindi prima hanno fondato questo programma di buon vicinato, pensato per gli studenti delle scuole superiori, poi hanno deciso di dare borse di studio agli studenti universitari. Poco prima che io diventassi direttrice della scuola, un tedesco che gestisce una fondazione, un uomo cattolico molto generoso, ha finanziato il progetto e quest’anno abbiamo potuto dare tredici borse di studio a studenti palestinesi. Abbiamo pertanto la possibilità di incontrare questi ragazzi ed è davvero incredibile ascoltare le loro storie. Molte ragazze delle scuole superiori hanno grandi ambizioni: diventare medici e avvocati. Se poi chiedi cosa fa la madre o la sorella sposata, casomai nessuna di loro lavora.
Tre anni fa, quando sono diventata responsabile, abbiamo rilanciato il programma e abbiamo trovato tantissimi studenti che si sono offerti volontari per lavorare con i giovani palestinesi. Ma poi il preside della scuola femminile palestinese ha deciso: “Non collaborerò con Israele”, così avevamo tutti questi volontari, ma non avevamo studenti.
È nato così un nuovo programma di cui sono molto orgogliosa. È una sorta di tutoraggio uno a uno. Ci sono circa quattrocento ragazzi di lingua araba che frequentano l’Università ebraica. I migliori quaranta, nel corso del secondo anno devono fare un progetto individuale e in questo sono seguiti dai nostri dottorandi. Funziona: dovresti vedere come questi studenti fanno passi da gigante.
Come sono cambiate le cose dopo il 7 ottobre?
Devo dire che dopo il 7 ottobre, a differenza di Yigal, il collega che avete intervistato, il mio impegno si è incentrato su Israele. La prima settimana non avevo idea di cosa fare di me stessa. Grazie ai miei studenti, ho scoperto che qui a Gerusalemme si era formato un quartier generale civile. L’idea era di aiutare le persone del Sud che non avevano dove stare, non avevano vestiti; si aiutavano anche i soldati perché Israele aveva arruolato 350.000 soldati in una notte e non c’erano abbastanza mense, vestiario, biancheria intima, sapone... Così ho fatto parte della squadra per l’equipaggiamento per tre mesi, andavo lì ogni giorno per sei ore: ricevevamo le richieste, chiamavamo le persone, scoprivamo di cosa avevano bisogno... Ho così tanti nomi di soldati salvati sul mio telefono e mi preoccupo sempre quando dicono che uno di loro è stato ucciso.
Alla Mandel School, al campus, abbiamo dovuto trovare dei modi anche per aiutare gli studenti; abbiamo intanto creato degli spazi di lavoro così che le persone non stessero da sole; davamo pure da mangiare, magari una semplice zuppa perché era inverno. Poter lavorare assieme dava comunque un piccolo sollievo. Abbiamo adottato il metodo “pomodoro”, quindi 25 minuti di lavoro, cinque minuti di pausa, 25 minuti di lavoro, cinque minuti di pausa. Questi “writing days”, come li definiamo, hanno aiutato gli studenti a riprendere le loro ricerche e a sentirsi supportati.
L’altra cosa che facevo già da prima della guerra è protestare contro questo governo. Vado ogni sabato sera, ma cerco di fare qualcosa quasi ogni giorno, mi metto a un incrocio vicino a casa con dei cartelli, tengo delle lezioni; faccio qualsiasi cosa mi chiedano di fare.
Penso che in Israele stiano accadendo cose terribili in questo momento, e che stiamo facendo cose che non dovremmo fare a Gaza e altrove. E tuttavia, finché gli ostaggi non tornano a casa, non c’è modo di uscirne. Inizio sempre le mie lezioni ricordando il numero dei giorni di guerra e gli ostaggi. Sono ormai una “protesta ambulante”.
A volte penso che i miei studenti credano che sia una pazza. Domenica prima della lezione una mia studentessa è venuta da me e mi ha detto: “Elisheva, oggi posso raccontare la storia di un ostaggio? Uno dei miei migliori amici è un ostaggio e voglio parlare di lui”. È stato un momento molto significativo.
I progetti con i palestinesi continuano?
Durante la prima settimana di guerra abbiamo chiamato tutti i nostri studenti per sapere se si fossero arruolati nell’esercito e se avessero bisogno di aiuto. Abbiamo chiamato anche i palestinesi. Molti di loro avevano paura di venire e hanno detto che era stato molto significativo per loro che io li avessi chiamati, che avessi chiesto loro come stavano. Sulla mia porta ho affisso una piccola spilla che dice “assieme ce la faremo”.
Lo scorso anno la scuola è iniziata con tre mesi di ritardo. Eravamo molto preoccupati per il ritorno degli studenti, così abbiamo creato una campagna “Vivere e imparare insieme”; nel corso delle prime due settimane, molti di noi docenti hanno indossato questa maglietta sopra i nostri vestiti; ci siamo messi all’ingresso dell’università. Abbiamo anche distribuito volantini con la scritta “Chiunque si senta a disagio è pregato di farcelo sapere”, ecc.
Sai, qui all’università abbiamo l’enorme vantaggio che tutti possono incontrarsi, però allo stesso tempo è come se ognuno vivesse all’interno del proprio gruppo. Voglio dire, teoricamente potresti sederti in classe accanto a un palestinese, ma se hai il tuo gruppo, non lo farai. Non dimentichiamo poi che qui circolano persone in uniforme, armate e al contempo ci sono tanti giovani palestinesi che studiano l’ebraico; sono una presenza reale nel campus: senti l’arabo ovunque cammini. Quindi a volte ci sono tensioni, ma se in giro ci sono abbastanza persone che indossano queste magliette, che sorridono, che sono accoglienti, beh, fa la differenza. Credo che almeno qui abbiamo fatto davvero la differenza. I palestinesi amano questo luogo, lo frequentano, è molto appartato, è tranquillo. Qui trovano anche più libertà che a casa. Infatti vorrebbero anche fare feste, mettersi lo smalto, ecc. ma su questo sono abbastanza severa: qui non si fanno queste cose, ci sono altri posti dove farlo.
Ovviamente non sono mancati i momenti difficili, i lutti, ma il fatto di avere questo spazio sicuro permette a tutti di avere la propria opinione e però anche di rispettarci l’un l’altro.
Come dice Jon Goldberg-Polin, il cui figlio Hersh è stato ucciso mentre era prigioniero di Hamas, nessuno ha il monopolio del dolore, della sofferenza. Tutti soffrono e la questione è come, assieme, possiamo migliorare le cose.
Io parlo sempre di pace, al contempo non penso che stiamo commettendo un genocidio. Sarebbe molto bello se potessimo sbarazzarci di questo governo. Continuo a credere che quella israeliana sia una società democratica e pluralistica e che abbiamo la capacità di rispettare gli altri. Purtroppo la situazione è complicata. Il fatto è che quello che stiamo facendo non sta funzionando, non stiamo salvando gli ostaggi, stiamo uccidendo delle persone e non stiamo migliorando la situazione.
Israele deve cambiare rotta. Quello che stiamo facendo è sbagliato e questa guerra deve finire, doveva essere finita già mesi fa. Non credo di essere così radicale, sono più centrista, per così dire, di altre persone con cui avete parlato.
Qual è il ruolo dei palestinesi israeliani in questa situazione?
Per loro è molto complicato. C’è ovviamente una forte identificazione con gli altri palestinesi. Personalmente penso che dovrebbero essere parte del processo decisionale in corso in Israele.
Dovrebbero inoltre avere pari diritti e pari opportunità, cosa che oggi non accade: anche i più ricchi e istruiti non hanno le stesse opportunità degli ebrei. È nostro dovere impegnarci affinché questa situazione cambi. Dal punto di vista accademico cerco di fare la mia parte. Alla fine noi ebrei e gli arabi abbiamo molto in comune. Certo c’è molto da lavorare.
Ripeto, questo governo è orrendo e sembra stia facendo di tutto per far sì che le cose vadano male. È molto deprimente. Per quanto facciamo manifestazioni e campagne, per quanto ci proviamo, non stiamo riuscendo a scuotere il sistema.
Purtroppo molti dei miei amici e colleghi hanno perso fiducia nei palestinesi dopo il 7 ottobre. Il fatto di non vedere e di non frequentare palestinesi non aiuta. Questi incontri non fanno più parte della nostra vita quotidiana, a meno che non facciamo uno sforzo in questo senso. Quest’anno ho deciso di iniziare a studiare l’arabo; l’avrei dovuto fare anni fa. Ho 55 anni e so che non diventerò fluente in arabo, ma se questo mi aiuta a capire meglio quello che succede intorno a me, se riesco a dire qualche frase, beh, è un buon inizio.
Perché, nonostante quello che è successo e sta succedendo, dei giovani palestinesi decidono di venire a imparare l’ebraico?
Perché, molto semplicemente, possono così ottenere un lavoro migliore, delle occasioni in più. Comunque quando c’è qualche risultato da festeggiare, tutti i genitori vengono e sono così orgogliosi dei loro figli. Quando parliamo con le ragazze, soprattutto quelle a cui destiniamo le borse di studio, chiediamo loro: “Cosa fanno le tue sorelle?”, ci rispondono che studiano, chi a Birzeit, chi a Ramallah, chi ad Al Quds, e se chiediamo perché allora vengono qui, ci dicono che è per avere maggiori opportunità.
Da poco faccio parte di un progetto che aiuta le donne arabe a preparare i loro curriculum per i datori di lavoro israeliani. È un’organizzazione che opera qui a Gerusalemme; ho appena iniziato a fare volontariato: donne di lingua ebraica e araba si incontrano una volta alla settimana per parlare e offrire aiuto per trovare lavoro. Aiuto queste donne a scrivere i loro cv in modo che siano appetibili. Alla viglia di un colloquio, alcune di noi del team le aiutano a prepararsi. Come tutti, vogliono solo avere l’opportunità di vivere una vita migliore. Come le ragazze palestinesi delle scuole superiori: hanno sogni così grandi; non sarà facile per loro realizzarli e non solo per colpa di Israele, ma anche per colpa della società palestinese.
La società palestinese ha i suoi problemi, non tutti i problemi sono provocati da Israele.
Questo è il primo anno in cui abbiamo una studentessa palestinese alla Facoltà di Medicina dell’Università ebraica.
Come hai vissuto la campagna di boicottaggio accademico? Sei stata coinvolta personalmente?
Personalmente no, ma mi occupo di studi ebraici, quindi mi relaziono prevalentemente con persone impegnate in quest’ambito di ricerca. All’inizio della guerra ricevevo decine di lettere al giorno in cui amici e colleghi mi chiedevano come stessi, come stesse la mia famiglia, così, invece di rispondere a ogni mail singolarmente, ho iniziato a scrivere una sorta di newsletter, aggiornando su quello che succede. Era un tentativo di dare alla gente uno sguardo dall’interno.
Qui, paradossalmente, conduciamo la nostra vita quotidiana quasi come se non ci fosse la guerra. E la mia battaglia è anche contro tutto questo: non possiamo avere vite normali, le nostre vite non possono essere normali. Anche se fingiamo che non sia così, la guerra è in corso e la gente soffre.
Mi ci sono volute settimane per riprendere a fare la vita di prima, a correre, a nuotare, a fare le cose che mi piacciono, però poi comunque mi sentivo infelice, insoddisfatta. Dobbiamo continuare a lottare per far capire che questo non è il modo in cui vogliamo che vadano le cose.
Certo il Bds si è sentito, con qualcuno si sono interrotti i rapporti, però diversi colleghi in Germania, Francia, Inghilterra, Stati Uniti e Canada si sono fatti in quattro per farmi sentire che loro c’erano, per tenere comunque i contatti.
Molti di loro non sono d’accordo con quello che sta succedendo in Israele e mi scrivono lettere molto puntuali sulla fame a Gaza e su quello che sta succedendo, e la verità è che probabilmente sono d’accordo con loro su molte cose.
La tua famiglia è religiosa. Le immagini delle violenze commesse dai coloni, spesso fanatici religiosi, contro la popolazione palestinese sono terribili.
Quello non è il giudaismo! Quel tipo di fanatismo, da entrambe le parti, è qualcosa che trascende la religione. Così come penso che Al Qaeda non sia l’Islam, allo stesso modo mi rifiuto di pensare che i coloni rappresentino il giudaismo. Io credo in un ebraismo liberale, in cui a tutti è permesso di decidere liberamente e dove la persona conta più di ogni altra cosa. Credo anche che questa sia la visione su cui si fonda lo Stato di Israele.
Aggiungo che all’interno della comunità israeliana ortodossa moderna, che di solito viene definita come promotrice di un sionismo religioso nazionale, la maggior parte dei miei amici è più a destra di me, quindi io rappresento l’ala sinistra. È stato sempre così. Anche mio marito la pensa come me e non da oggi. I miei figli si sono spostati più a sinistra crescendo. Mia figlia, che ora ha 28 anni, quando ha finito il liceo, prima di entrare nell’esercito, ha partecipato a questo programma in cui portavano i ragazzi a vedere diverse parti di Israele e hanno anche incontrato questi coloni che stavano conquistando una collina. La donna che hanno incontrato ha detto: “Non mi importa se i miei figli moriranno qui, è più importante che noi siamo qui piuttosto che i nostri figli siano vivi”. Mia figlia ha alzato la mano e ha iniziato a interloquire con questa donna. Si è proprio alterata. Quando si è seduta ha pensato: “Non ero io a parlare, ma mia madre”. All’improvviso si è resa conto di essere d’accordo con quello che aveva sentito a casa.
L’altra figlia è davvero una pacifista e ora è nell’esercito. Capisco che suoni strano, ma è così che funziona in Israele. Lei è convinta che la guerra sia la cosa peggiore.
Mia sorella minore è tornata a vivere in Canada; è curioso perché quando ci siamo trasferiti in Israele lei aveva solo 5 anni quindi in realtà non è mai stata canadese. Ma per lei è stata una scelta politica. Non voleva più vivere in Israele. Lavorava per un’organizzazione per i diritti umani ed era molto attiva. A un certo punto lei e suo marito hanno sentito che non potevano rimanere qui, avevano tre figli e non volevano crescerli qui. Si sono trasferiti a Toronto. Ora è impegnata in iniziative contro l’antisemitismo in Canada. Da quando c’è la guerra, pur essendo laggiù, è come se vivesse qui. In qualche modo, in questi frangenti, è ancora più difficile essere lontani. Ci scriviamo e commentiamo quello che succede quotidianamente, ci scambiamo gli articoli. Lei capisce l’arabo, quindi legge anche Al Jazeera che invece nel nostro paese è stata bandita.
Questa è la mia famiglia.
Personalmente io credo nella tradizione ebraica, amo lo stile di vita tradizionale, posso anche porre domande problematiche e sollevare le sopracciglia su diversi aspetti dell’ebraismo tradizionale, ma rimane il mondo di cui voglio far parte. Mi piacere vedere come costumi in uso nel Medioevo siano arrivati a noi. Per quanto riguarda i coloni... Giacobbe, a proposito dei suoi figli che avevano compiuto il massacro contro il popolo di Shechem, disse: “La mia anima non sia in loro”, come a prendere le distanze dal loro operato. [“Simeone e Levi sono fratelli; le loro armi sono strumenti di violenza. Non entri la mia anima nel loro consiglio, non si unisca la mia gloria alla loro assemblea; perché nella loro ira hanno ucciso uomini e nella loro caparbietà hanno storpiato buoi”.]
Jeff Halper ci ricorda che Israele si trova davanti a un difficile “trilemma”: dei tre elementi, terra, democrazia e carattere ebraico dello stato, deve sceglierne due e rinunciare al terzo.
Non so se sono d’accordo. Penso che prima di tutto i palestinesi abbiano bisogno di un loro Stato. Non sono una sostenitrice della soluzione a uno stato. Devono esserci due stati. Dopodiché, fortunatamente o sfortunatamente (io direi sfortunatamente, ma la storia è già stata giocata), ci sono molti israeliani che vivono oltre la Linea verde. Non credo che possiamo dire semplicemente: “Torniamo al 1967” oppure “Torniamo al 1948”. Certo è che prima finiremo di compiere atti illegali in Giudea e Samaria, prima riusciremo a creare uno spazio per i palestinesi. Non sto suggerendo di sgomberare Ma’ale Adumim, che si trova proprio qui vicino al Monte Scopus, dove vivono decine di migliaia di israeliani, né di sgomberare Gush Etzion o Efrat, tuttavia è chiaro che noi dobbiamo liberare i loro spazi e loro devono uscire dal nostro -in questo caso se non vogliono starci, diversamente devono avere tutti i diritti e i doveri degli altri.
Purtroppo oggi al comando abbiamo dei veri fascisti, gente a cui non importa niente, che pensa solo al proprio tornaconto, persone egoiste e senza scrupoli. Quello che stanno facendo è così ingiusto, immorale. Stiamo assistendo a una vera e propria presa di potere a ogni livello dello stato.
Viene davvero da dire: “Basta, lasciate che queste persone vivano proprio come vorreste vivere voi!”.
Sono sempre pronti a parlare di come gli ebrei sono stati perseguitati e contemporaneamente così incapaci di vedere come siamo diventati, come siamo riusciti a sprecare tutto il credito e la comprensione guadagnati dopo l’eccidio del 7 ottobre. In quei giorni israeliani provenienti da tutto il mondo sono saliti su un aereo e sono tornati a casa per combattere, per salvare il paese e il paese era davvero in pericolo. Ma ora è finita. Adesso basta. Bisogna fermare questa guerra.
Anche oggi sono morti degli studenti.
Noi non dobbiamo risolvere i problemi dei palestinesi. Non è nostro compito. Noi dobbiamo assicurarci che il nostro paese sia al sicuro, ma anche che noi rimaniamo umani e giusti e che non commettiamo atti orribili.
Per concludere?
Io continuo a credere nel popolo israeliano. Non penso ci siano altri luoghi in cui la gente manifesti settimana dopo settimana, mese dopo mese, per così tanto tempo, senza arrendersi. Siamo testardi e se nei miei giorni difficili penso che sia tutto perduto, in quelli buoni penso che ce la faremo.
I miei genitori vengono alla manifestazione ogni sabato sera, ho una sorella che va a tutte le manifestazioni. I miei figli grandi pure. La piccola è ancora nell’esercito quindi non manifesta ma è una vera pacifista, l’altro è ancora un po’ confuso, ma è un bravo ragazzo e troverà la sua strada; ho una sorella che è molto di destra e questo rende i rapporti complicati, ma rimane mia sorella. Fa parte della democrazia avere opinioni diverse. Una delle cose che mi piace di più delle manifestazioni a Gerusalemme rispetto a quelle di Tel Aviv è che si sentono tante opinioni diverse, ma tutto rientra in un quadro in cui ogni opinione ha il suo posto ed è legittima.
Che altro dire? Io resto convinta che alla fine troveremo la pace. Ma prima, tutti gli ostaggi devono tornare a casa e questa guerra deve finire
(a cura di Barbara Bertoncin e Bettina Foa)
Puoi raccontarci la tua storia?
Sono nata a New York in una famiglia religiosa. Gli antenati dei miei venivano dall’Europa, si erano trasferiti negli Usa prima della seconda guerra mondiale. Mia nonna era nata a New York in quella che era la tipica famiglia ebraica newyorchese originaria dell’Europa orientale.
Noi ci siamo poi trasferiti in Canada, dove siamo rimasti per undici anni. Vivevamo in una piccola comunità rispettosa delle tradizioni; la scuola che frequentavo era anch’essa ortodossa, ma la maggior parte dei ragazzi invece non lo era. Con gli occhi di oggi credo sia stata una buona scuola di tolleranza e di rispetto per i tanti modi di essere ebreo.
Quando abbiamo fatto la nostra “aliah” io avevo 15 anni. Gerusalemme mi è subito piaciuta: c’eravamo già stati per un periodo durante l’anno sabbatico di mio padre e ci avevo trovato tutto quello che non avevo in Canada. C’erano così tanti ragazzini con cui potevo fare amicizia. In Canada, a ogni compleanno dovevo portarmi il cibo da casa, perché non potevo mai mangiare la torta che c’era. A Gerusalemme potevo fare tutto! Quindi mi sono immediatamente innamorata di Israele. C’è anche da dire che qui i bambini sono più liberi, più indipendenti. Esistono un sacco di iniziative pensate per loro. Questo mi piace molto.
A 15 anni ci siamo trasferiti definitivamente a Gerusalemme. La preside della nostra scuola era Alice Shalvi, una figura di spicco del femminismo israeliano. Credo che lei abbia molto contribuito alla mia formazione. Era una scuola femminile e l’idea con cui siamo state educate era che le donne possono fare tutto.
Poi ho fatto il servizio militare e sono stata mandata a Sderot, al Sud, in una delle zone attaccate il 7 ottobre, ma già soggetta a bombardamenti nel corso degli ultimi vent’anni. Mi sono arruolata il giorno in cui è scoppiata la prima intifada, nel dicembre del 1987. Durante l’addestramento eravamo soliti andare a Gaza, a fare delle escursioni nelle colline tra Sderot e Gaza. Il confine era aperto; succedeva quarant’anni fa, oggi sembra incredibile...
Durante il servizio militare a Sderot ho lavorato con persone che non avevo mai frequentato, tra cui molti israeliani di prima generazione e ebrei del Nord Africa. Il nostro compito era quello di lavorare nelle scuole, soprattutto elementari. Sono stati due anni e mezzo molto soddisfacenti; mi piaceva quello che facevo; non volevo neanche più andare all’università; mi sarebbe piaciuto insegnare ai ragazzini per il resto della mia vita. Però poi ho pensato che dovevo studiare per fare un buon lavoro. Uno di questi ragazzini a cui insegnavo l’inglese è diventato il primo pilota di Sderot. Oggi ha 46 anni.
Poi ho iniziato l’università e mi sono laureata in Studi umanistici alla Hebrew University. Ho studiato anche Storia ebraica; questa combinazione mi piaceva molto. Alla facoltà di Storia, la cosa sconvolgente era la carenza di donne. Ancora nel 1990 su trenta membri della facoltà solo una era una donna. Ho poi preso la mia laurea di primo e secondo livello, ho fatto un dottorato e mi sono specializzata in storia medievale. Ho studiato gli ebrei aschenaziti in Germania e Francia nel Medioevo. All’epoca tutti studiavano i rabbini e le loro vicende. Io cominciai a chiedere: “E le donne dov’erano? E i bambini?”, perché erano le questioni che mi interessano; credo fosse dovuto a una sorta di spirito femminista che mi animava.
Poi sono stata un paio d’anni negli Stati Uniti, a Philadelphia, per il mio PhD; quando sono tornata in Israele ho trovato lavoro all’Università Bar Ilan, che finanziava un programma di studi di genere; io mi occupavo di storia, di tutta la storia, come diciamo da noi: dalla Bibbia al Palmach; in inglese si dice “from Plato to Nato”, dalla storia antica a quella moderna. Uno dei miei corsi preferiti era “da Maria a Madonna”.
Questo mi permetteva di insegnare molte cose diverse. Mi occupavo anche specificamente di storia ebraica. Ci sono stata per undici anni, poi mi sono spostata alla Hebrew University. Anche qui mi occupo di storia e di storia ebraica, che corrisponde poi al modo in cui vedo il mondo: gli ebrei non sono mai vissuti da soli, ma sempre in mezzo agli altri.
Come hai visto cambiare la situazione in questi anni, in particolare rispetto ai rapporti con i palestinesi?
Nel 1999 sono andata a Philadelphia e sono tornata in Israele nel 2001, proprio in concomitanza con lo scoppio della seconda Intifada, c’erano gli attentati ai bus. Sono atterrata il 9 novembre e nelle settimane successive sono accaduti episodi terribili; era un bruttissimo periodo. Ma già quando ero tornata a trovare i miei mentre studiavo negli Usa ricordo di essermi trovata a pensare: “Non vedo più palestinesi nelle strade”. Crescendo in Israele in realtà c’era una consuetudine di incontri quotidiani con i palestinesi. Dopo la Seconda intifada venne costruito il muro e alla fine abbiamo smesso di incontrare i palestinesi.
A Bar Ilan ci sono molti studenti arabo-israeliani e il programma di studi di genere vede sempre la partecipazione di una quota di studenti palestinesi con cittadinanza israeliana. Sono previste borse di studio. Quindi è una sorta di microcosmo della società israeliana con tutte le tensioni del caso.
Per molti anni ho considerato che fossero le battaglie femministe il mio principale impegno politico. Anche se si dice che siamo avanti, in realtà a me sembra che ci sia ancora tanta strada da fare. Le donne che vivono in Israele non sono in una situazione felice. E la guerra ha peggiorato le cose. Guardate al nostro governo, tutto così maschile e maschilista e l’arrivo di Trump non farà che peggiorare le cose. Gli anni Novanta sono stati un periodo migliore per i diritti delle donne. Da allora il mondo è cambiato e non in meglio. Per questo considero ancora fondamentale l’attivismo femminista sia in ambito accademico che fuori.
Oggi il mio impegno si svolge prevalentemente all’università. Oltre all’attività di ricerca dirigo la Jack, Joseph and Morton Mandel School for Advanced Studies in the Humanities. Ospitiamo circa duecento persone con Phd, Postdoc, docenti. Dall’edificio, che si trova sul monte Scopus, si gode di una vista panoramica sulla città antica e sulle zone circostanti; si può persino vedere il Mar Morto da un lato e Ramallah dall’altro; si vedono i villaggi palestinesi e il muro che attraversa Gerusalemme. I fondatori, proprio guardando dalla finestra, hanno detto: “Non possiamo andare avanti così, dobbiamo fare qualcosa”. E così è nato il primo programma dedicato ai ragazzi palestinesi delle scuole superiori del quartiere accanto all’università, che vengono qui una volta ogni due settimane. Si parla in ebraico e in inglese, e si chiama progetto del buon vicinato. Questi studenti nelle loro scuole seguono il curriculum giordano, che include gli esami chiamati Tawjihi o “Tao G”, che sono gli esami di maturità giordani. Qui all’Università ebraica abbiamo anche un programma per insegnare l’ebraico; è iniziato con cinquanta persone e oggi abbiamo più richieste di quelle che possono essere accettate; siamo arrivati a quattrocento iscrizioni all’anno. Alla guida c’è una donna, una professoressa che si chiama Mona Khoury, un’araba israeliana di Haifa. È un programma che dura un anno in cui si insegna l’ebraico, l’inglese e a esercitare il pensiero critico. C’è uno staff molto dedito ed è frequentato da tanti ragazzi di Gerusalemme Est.
Quindi prima hanno fondato questo programma di buon vicinato, pensato per gli studenti delle scuole superiori, poi hanno deciso di dare borse di studio agli studenti universitari. Poco prima che io diventassi direttrice della scuola, un tedesco che gestisce una fondazione, un uomo cattolico molto generoso, ha finanziato il progetto e quest’anno abbiamo potuto dare tredici borse di studio a studenti palestinesi. Abbiamo pertanto la possibilità di incontrare questi ragazzi ed è davvero incredibile ascoltare le loro storie. Molte ragazze delle scuole superiori hanno grandi ambizioni: diventare medici e avvocati. Se poi chiedi cosa fa la madre o la sorella sposata, casomai nessuna di loro lavora.
Tre anni fa, quando sono diventata responsabile, abbiamo rilanciato il programma e abbiamo trovato tantissimi studenti che si sono offerti volontari per lavorare con i giovani palestinesi. Ma poi il preside della scuola femminile palestinese ha deciso: “Non collaborerò con Israele”, così avevamo tutti questi volontari, ma non avevamo studenti.
È nato così un nuovo programma di cui sono molto orgogliosa. È una sorta di tutoraggio uno a uno. Ci sono circa quattrocento ragazzi di lingua araba che frequentano l’Università ebraica. I migliori quaranta, nel corso del secondo anno devono fare un progetto individuale e in questo sono seguiti dai nostri dottorandi. Funziona: dovresti vedere come questi studenti fanno passi da gigante.
Come sono cambiate le cose dopo il 7 ottobre?
Devo dire che dopo il 7 ottobre, a differenza di Yigal, il collega che avete intervistato, il mio impegno si è incentrato su Israele. La prima settimana non avevo idea di cosa fare di me stessa. Grazie ai miei studenti, ho scoperto che qui a Gerusalemme si era formato un quartier generale civile. L’idea era di aiutare le persone del Sud che non avevano dove stare, non avevano vestiti; si aiutavano anche i soldati perché Israele aveva arruolato 350.000 soldati in una notte e non c’erano abbastanza mense, vestiario, biancheria intima, sapone... Così ho fatto parte della squadra per l’equipaggiamento per tre mesi, andavo lì ogni giorno per sei ore: ricevevamo le richieste, chiamavamo le persone, scoprivamo di cosa avevano bisogno... Ho così tanti nomi di soldati salvati sul mio telefono e mi preoccupo sempre quando dicono che uno di loro è stato ucciso.
Alla Mandel School, al campus, abbiamo dovuto trovare dei modi anche per aiutare gli studenti; abbiamo intanto creato degli spazi di lavoro così che le persone non stessero da sole; davamo pure da mangiare, magari una semplice zuppa perché era inverno. Poter lavorare assieme dava comunque un piccolo sollievo. Abbiamo adottato il metodo “pomodoro”, quindi 25 minuti di lavoro, cinque minuti di pausa, 25 minuti di lavoro, cinque minuti di pausa. Questi “writing days”, come li definiamo, hanno aiutato gli studenti a riprendere le loro ricerche e a sentirsi supportati.
L’altra cosa che facevo già da prima della guerra è protestare contro questo governo. Vado ogni sabato sera, ma cerco di fare qualcosa quasi ogni giorno, mi metto a un incrocio vicino a casa con dei cartelli, tengo delle lezioni; faccio qualsiasi cosa mi chiedano di fare.
Penso che in Israele stiano accadendo cose terribili in questo momento, e che stiamo facendo cose che non dovremmo fare a Gaza e altrove. E tuttavia, finché gli ostaggi non tornano a casa, non c’è modo di uscirne. Inizio sempre le mie lezioni ricordando il numero dei giorni di guerra e gli ostaggi. Sono ormai una “protesta ambulante”.
A volte penso che i miei studenti credano che sia una pazza. Domenica prima della lezione una mia studentessa è venuta da me e mi ha detto: “Elisheva, oggi posso raccontare la storia di un ostaggio? Uno dei miei migliori amici è un ostaggio e voglio parlare di lui”. È stato un momento molto significativo.
I progetti con i palestinesi continuano?
Durante la prima settimana di guerra abbiamo chiamato tutti i nostri studenti per sapere se si fossero arruolati nell’esercito e se avessero bisogno di aiuto. Abbiamo chiamato anche i palestinesi. Molti di loro avevano paura di venire e hanno detto che era stato molto significativo per loro che io li avessi chiamati, che avessi chiesto loro come stavano. Sulla mia porta ho affisso una piccola spilla che dice “assieme ce la faremo”.
Lo scorso anno la scuola è iniziata con tre mesi di ritardo. Eravamo molto preoccupati per il ritorno degli studenti, così abbiamo creato una campagna “Vivere e imparare insieme”; nel corso delle prime due settimane, molti di noi docenti hanno indossato questa maglietta sopra i nostri vestiti; ci siamo messi all’ingresso dell’università. Abbiamo anche distribuito volantini con la scritta “Chiunque si senta a disagio è pregato di farcelo sapere”, ecc.
Sai, qui all’università abbiamo l’enorme vantaggio che tutti possono incontrarsi, però allo stesso tempo è come se ognuno vivesse all’interno del proprio gruppo. Voglio dire, teoricamente potresti sederti in classe accanto a un palestinese, ma se hai il tuo gruppo, non lo farai. Non dimentichiamo poi che qui circolano persone in uniforme, armate e al contempo ci sono tanti giovani palestinesi che studiano l’ebraico; sono una presenza reale nel campus: senti l’arabo ovunque cammini. Quindi a volte ci sono tensioni, ma se in giro ci sono abbastanza persone che indossano queste magliette, che sorridono, che sono accoglienti, beh, fa la differenza. Credo che almeno qui abbiamo fatto davvero la differenza. I palestinesi amano questo luogo, lo frequentano, è molto appartato, è tranquillo. Qui trovano anche più libertà che a casa. Infatti vorrebbero anche fare feste, mettersi lo smalto, ecc. ma su questo sono abbastanza severa: qui non si fanno queste cose, ci sono altri posti dove farlo.
Ovviamente non sono mancati i momenti difficili, i lutti, ma il fatto di avere questo spazio sicuro permette a tutti di avere la propria opinione e però anche di rispettarci l’un l’altro.
Come dice Jon Goldberg-Polin, il cui figlio Hersh è stato ucciso mentre era prigioniero di Hamas, nessuno ha il monopolio del dolore, della sofferenza. Tutti soffrono e la questione è come, assieme, possiamo migliorare le cose.
Io parlo sempre di pace, al contempo non penso che stiamo commettendo un genocidio. Sarebbe molto bello se potessimo sbarazzarci di questo governo. Continuo a credere che quella israeliana sia una società democratica e pluralistica e che abbiamo la capacità di rispettare gli altri. Purtroppo la situazione è complicata. Il fatto è che quello che stiamo facendo non sta funzionando, non stiamo salvando gli ostaggi, stiamo uccidendo delle persone e non stiamo migliorando la situazione.
Israele deve cambiare rotta. Quello che stiamo facendo è sbagliato e questa guerra deve finire, doveva essere finita già mesi fa. Non credo di essere così radicale, sono più centrista, per così dire, di altre persone con cui avete parlato.
Qual è il ruolo dei palestinesi israeliani in questa situazione?
Per loro è molto complicato. C’è ovviamente una forte identificazione con gli altri palestinesi. Personalmente penso che dovrebbero essere parte del processo decisionale in corso in Israele.
Dovrebbero inoltre avere pari diritti e pari opportunità, cosa che oggi non accade: anche i più ricchi e istruiti non hanno le stesse opportunità degli ebrei. È nostro dovere impegnarci affinché questa situazione cambi. Dal punto di vista accademico cerco di fare la mia parte. Alla fine noi ebrei e gli arabi abbiamo molto in comune. Certo c’è molto da lavorare.
Ripeto, questo governo è orrendo e sembra stia facendo di tutto per far sì che le cose vadano male. È molto deprimente. Per quanto facciamo manifestazioni e campagne, per quanto ci proviamo, non stiamo riuscendo a scuotere il sistema.
Purtroppo molti dei miei amici e colleghi hanno perso fiducia nei palestinesi dopo il 7 ottobre. Il fatto di non vedere e di non frequentare palestinesi non aiuta. Questi incontri non fanno più parte della nostra vita quotidiana, a meno che non facciamo uno sforzo in questo senso. Quest’anno ho deciso di iniziare a studiare l’arabo; l’avrei dovuto fare anni fa. Ho 55 anni e so che non diventerò fluente in arabo, ma se questo mi aiuta a capire meglio quello che succede intorno a me, se riesco a dire qualche frase, beh, è un buon inizio.
Perché, nonostante quello che è successo e sta succedendo, dei giovani palestinesi decidono di venire a imparare l’ebraico?
Perché, molto semplicemente, possono così ottenere un lavoro migliore, delle occasioni in più. Comunque quando c’è qualche risultato da festeggiare, tutti i genitori vengono e sono così orgogliosi dei loro figli. Quando parliamo con le ragazze, soprattutto quelle a cui destiniamo le borse di studio, chiediamo loro: “Cosa fanno le tue sorelle?”, ci rispondono che studiano, chi a Birzeit, chi a Ramallah, chi ad Al Quds, e se chiediamo perché allora vengono qui, ci dicono che è per avere maggiori opportunità.
Da poco faccio parte di un progetto che aiuta le donne arabe a preparare i loro curriculum per i datori di lavoro israeliani. È un’organizzazione che opera qui a Gerusalemme; ho appena iniziato a fare volontariato: donne di lingua ebraica e araba si incontrano una volta alla settimana per parlare e offrire aiuto per trovare lavoro. Aiuto queste donne a scrivere i loro cv in modo che siano appetibili. Alla viglia di un colloquio, alcune di noi del team le aiutano a prepararsi. Come tutti, vogliono solo avere l’opportunità di vivere una vita migliore. Come le ragazze palestinesi delle scuole superiori: hanno sogni così grandi; non sarà facile per loro realizzarli e non solo per colpa di Israele, ma anche per colpa della società palestinese.
La società palestinese ha i suoi problemi, non tutti i problemi sono provocati da Israele.
Questo è il primo anno in cui abbiamo una studentessa palestinese alla Facoltà di Medicina dell’Università ebraica.
Come hai vissuto la campagna di boicottaggio accademico? Sei stata coinvolta personalmente?
Personalmente no, ma mi occupo di studi ebraici, quindi mi relaziono prevalentemente con persone impegnate in quest’ambito di ricerca. All’inizio della guerra ricevevo decine di lettere al giorno in cui amici e colleghi mi chiedevano come stessi, come stesse la mia famiglia, così, invece di rispondere a ogni mail singolarmente, ho iniziato a scrivere una sorta di newsletter, aggiornando su quello che succede. Era un tentativo di dare alla gente uno sguardo dall’interno.
Qui, paradossalmente, conduciamo la nostra vita quotidiana quasi come se non ci fosse la guerra. E la mia battaglia è anche contro tutto questo: non possiamo avere vite normali, le nostre vite non possono essere normali. Anche se fingiamo che non sia così, la guerra è in corso e la gente soffre.
Mi ci sono volute settimane per riprendere a fare la vita di prima, a correre, a nuotare, a fare le cose che mi piacciono, però poi comunque mi sentivo infelice, insoddisfatta. Dobbiamo continuare a lottare per far capire che questo non è il modo in cui vogliamo che vadano le cose.
Certo il Bds si è sentito, con qualcuno si sono interrotti i rapporti, però diversi colleghi in Germania, Francia, Inghilterra, Stati Uniti e Canada si sono fatti in quattro per farmi sentire che loro c’erano, per tenere comunque i contatti.
Molti di loro non sono d’accordo con quello che sta succedendo in Israele e mi scrivono lettere molto puntuali sulla fame a Gaza e su quello che sta succedendo, e la verità è che probabilmente sono d’accordo con loro su molte cose.
La tua famiglia è religiosa. Le immagini delle violenze commesse dai coloni, spesso fanatici religiosi, contro la popolazione palestinese sono terribili.
Quello non è il giudaismo! Quel tipo di fanatismo, da entrambe le parti, è qualcosa che trascende la religione. Così come penso che Al Qaeda non sia l’Islam, allo stesso modo mi rifiuto di pensare che i coloni rappresentino il giudaismo. Io credo in un ebraismo liberale, in cui a tutti è permesso di decidere liberamente e dove la persona conta più di ogni altra cosa. Credo anche che questa sia la visione su cui si fonda lo Stato di Israele.
Aggiungo che all’interno della comunità israeliana ortodossa moderna, che di solito viene definita come promotrice di un sionismo religioso nazionale, la maggior parte dei miei amici è più a destra di me, quindi io rappresento l’ala sinistra. È stato sempre così. Anche mio marito la pensa come me e non da oggi. I miei figli si sono spostati più a sinistra crescendo. Mia figlia, che ora ha 28 anni, quando ha finito il liceo, prima di entrare nell’esercito, ha partecipato a questo programma in cui portavano i ragazzi a vedere diverse parti di Israele e hanno anche incontrato questi coloni che stavano conquistando una collina. La donna che hanno incontrato ha detto: “Non mi importa se i miei figli moriranno qui, è più importante che noi siamo qui piuttosto che i nostri figli siano vivi”. Mia figlia ha alzato la mano e ha iniziato a interloquire con questa donna. Si è proprio alterata. Quando si è seduta ha pensato: “Non ero io a parlare, ma mia madre”. All’improvviso si è resa conto di essere d’accordo con quello che aveva sentito a casa.
L’altra figlia è davvero una pacifista e ora è nell’esercito. Capisco che suoni strano, ma è così che funziona in Israele. Lei è convinta che la guerra sia la cosa peggiore.
Mia sorella minore è tornata a vivere in Canada; è curioso perché quando ci siamo trasferiti in Israele lei aveva solo 5 anni quindi in realtà non è mai stata canadese. Ma per lei è stata una scelta politica. Non voleva più vivere in Israele. Lavorava per un’organizzazione per i diritti umani ed era molto attiva. A un certo punto lei e suo marito hanno sentito che non potevano rimanere qui, avevano tre figli e non volevano crescerli qui. Si sono trasferiti a Toronto. Ora è impegnata in iniziative contro l’antisemitismo in Canada. Da quando c’è la guerra, pur essendo laggiù, è come se vivesse qui. In qualche modo, in questi frangenti, è ancora più difficile essere lontani. Ci scriviamo e commentiamo quello che succede quotidianamente, ci scambiamo gli articoli. Lei capisce l’arabo, quindi legge anche Al Jazeera che invece nel nostro paese è stata bandita.
Questa è la mia famiglia.
Personalmente io credo nella tradizione ebraica, amo lo stile di vita tradizionale, posso anche porre domande problematiche e sollevare le sopracciglia su diversi aspetti dell’ebraismo tradizionale, ma rimane il mondo di cui voglio far parte. Mi piacere vedere come costumi in uso nel Medioevo siano arrivati a noi. Per quanto riguarda i coloni... Giacobbe, a proposito dei suoi figli che avevano compiuto il massacro contro il popolo di Shechem, disse: “La mia anima non sia in loro”, come a prendere le distanze dal loro operato. [“Simeone e Levi sono fratelli; le loro armi sono strumenti di violenza. Non entri la mia anima nel loro consiglio, non si unisca la mia gloria alla loro assemblea; perché nella loro ira hanno ucciso uomini e nella loro caparbietà hanno storpiato buoi”.]
Jeff Halper ci ricorda che Israele si trova davanti a un difficile “trilemma”: dei tre elementi, terra, democrazia e carattere ebraico dello stato, deve sceglierne due e rinunciare al terzo.
Non so se sono d’accordo. Penso che prima di tutto i palestinesi abbiano bisogno di un loro Stato. Non sono una sostenitrice della soluzione a uno stato. Devono esserci due stati. Dopodiché, fortunatamente o sfortunatamente (io direi sfortunatamente, ma la storia è già stata giocata), ci sono molti israeliani che vivono oltre la Linea verde. Non credo che possiamo dire semplicemente: “Torniamo al 1967” oppure “Torniamo al 1948”. Certo è che prima finiremo di compiere atti illegali in Giudea e Samaria, prima riusciremo a creare uno spazio per i palestinesi. Non sto suggerendo di sgomberare Ma’ale Adumim, che si trova proprio qui vicino al Monte Scopus, dove vivono decine di migliaia di israeliani, né di sgomberare Gush Etzion o Efrat, tuttavia è chiaro che noi dobbiamo liberare i loro spazi e loro devono uscire dal nostro -in questo caso se non vogliono starci, diversamente devono avere tutti i diritti e i doveri degli altri.
Purtroppo oggi al comando abbiamo dei veri fascisti, gente a cui non importa niente, che pensa solo al proprio tornaconto, persone egoiste e senza scrupoli. Quello che stanno facendo è così ingiusto, immorale. Stiamo assistendo a una vera e propria presa di potere a ogni livello dello stato.
Viene davvero da dire: “Basta, lasciate che queste persone vivano proprio come vorreste vivere voi!”.
Sono sempre pronti a parlare di come gli ebrei sono stati perseguitati e contemporaneamente così incapaci di vedere come siamo diventati, come siamo riusciti a sprecare tutto il credito e la comprensione guadagnati dopo l’eccidio del 7 ottobre. In quei giorni israeliani provenienti da tutto il mondo sono saliti su un aereo e sono tornati a casa per combattere, per salvare il paese e il paese era davvero in pericolo. Ma ora è finita. Adesso basta. Bisogna fermare questa guerra.
Anche oggi sono morti degli studenti.
Noi non dobbiamo risolvere i problemi dei palestinesi. Non è nostro compito. Noi dobbiamo assicurarci che il nostro paese sia al sicuro, ma anche che noi rimaniamo umani e giusti e che non commettiamo atti orribili.
Per concludere?
Io continuo a credere nel popolo israeliano. Non penso ci siano altri luoghi in cui la gente manifesti settimana dopo settimana, mese dopo mese, per così tanto tempo, senza arrendersi. Siamo testardi e se nei miei giorni difficili penso che sia tutto perduto, in quelli buoni penso che ce la faremo.
I miei genitori vengono alla manifestazione ogni sabato sera, ho una sorella che va a tutte le manifestazioni. I miei figli grandi pure. La piccola è ancora nell’esercito quindi non manifesta ma è una vera pacifista, l’altro è ancora un po’ confuso, ma è un bravo ragazzo e troverà la sua strada; ho una sorella che è molto di destra e questo rende i rapporti complicati, ma rimane mia sorella. Fa parte della democrazia avere opinioni diverse. Una delle cose che mi piace di più delle manifestazioni a Gerusalemme rispetto a quelle di Tel Aviv è che si sentono tante opinioni diverse, ma tutto rientra in un quadro in cui ogni opinione ha il suo posto ed è legittima.
Che altro dire? Io resto convinta che alla fine troveremo la pace. Ma prima, tutti gli ostaggi devono tornare a casa e questa guerra deve finire
(a cura di Barbara Bertoncin e Bettina Foa)
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